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all'opera dal Padre commessagli di promulgare e fondare il Regno di Dio sopra la terra. Quelle poi furono tre: il battesimo della penitenza ricevuto dal Precursore, il digiuno per quaranta giorni sostenuto nel deserto, e la tentazione, dalla quale ivi medesimo, alla fine di quelli, permise di essere investito dalla parte di Satana. Com'è per sè manifesto, di nessuna di quelle preparazioni potea avere alcun uopo il Salvatore; il quale, già dal primo istante del suo concepimento, Dio e uomo allo stesso tempo, si dovette, eziandio secondo l'umana natura, trovare perfettissimamente disposto a qualsiasi operazione, che potesse in qualsiasi modo dalla natura stessa procedere. Il vederlo pertanto dechinarsi, in quella maniera, ad atti, che solo dalla imperfezione natia del nostro essere si rendono convenienti e necessarii, mentre da una parte ci si fa nuovo argomento della verissima natura umana da lui assunta con tutte le debolezze inerenti a lei, ci fornisce dall' altra novella pruova della sua infinita carità verso di noi, la quale non dietreggiò innanzi ad ogni specie di umiliazione, che potesse tornare a nostra istruzione ed a nostro conforto; quantunque egli vedesse già molto bene, che la umana superbia ne avrebbe pigliata colpevole cagione di scandalo per sua ruina. La vita di Cristo fu, dal primo suo vagito, fino all'ultimo suo anelito, perenne sacrifizio offerto al Padre, e fu allo stesso tempo scuola perenne proposta al genere umano. Ora come tutte le sue umiliazioni in generale, e queste tre di cui peculiarmente ora parliamo, entravano nei tesori delle espiazioni offerte per noi, così accrescevano quell'altro non men prezioso tesoro di documenti, proposti agli uomini, per norma e per governo della loro vita.

Cristo, per mettersi all'opera, aspettò di avere valicato di parecchi mesi il trigesimo anno dell' età sua, e forse compì il trigesimoprimo nel deserto, perchè gli uomini comunemente prima di quel tempo non sogliono essere maturi ad imprese di grande momento. Ma acquistata quella per lui non necessaria maturità, fece di più; e colla triplice preparazione agguerriva noi contro tre specie di nemici, che alla nostra natura fanno aspra ed ostinata guerra; ed i quali egli, benchè nè punto nè poco non ne sentisse nella sua persona, volle tuttavia combattere e trionfare, a fine di fornirci esempio ed incoraggiarci, per sostenere degnamente un somigliante combattimento, e per riportarne un

somigliante trionfo. Il peccato, che è separazione da Dio, non si vince, che colla penitenza, a cui conduceva il battesimo di Giovanni; la natura inferiore tende a sopraffarci, a dominarci colle propensioni del senso, ed il digiuno, imbrigliandone una delle più prepotenti, ci addestra a padroneggiarle tutte; da ultimo una natura superiore a noi, nemica di Dio e nostra, c'insidia ostinatamente colle sue suggestioni, ed armati della divina parola, secondo che Cristo c'insegnò col suo esempio, anche di essa possiamo uscire immuni e vittoriosi.

II. Ricevuto, che ebbe Gesù il battesimo da Giovanni, fu tosto, statim, come notò S. Marco, sospinto dallo Spirito Santo nel deserto; e poichè già egli e Giovanni si trovavano nel deserto, in quanto quella sponda del Giordano era assai erma e solinga, vuol dire, che il Signore si addentrò nella parte più riposta e segreta di quello; e per farcelo meglio intendere lo stesso S. Marco aggiunge, che vi stava colle bestie: Eratque cum bestiis: come per significarci luogo, non da uomini, ma da fiere. Ciò dovette avvenire, secondo i nostri computi, sul cadere del Novembre, o poco dopo, l'anno di Roma 778 e dell'Èra vulgare 25. Ivi Gesù si rimase quaranta giorni e quaranta notti in assoluto digiuno, senza nulla mangiare nè bere; e bene l'autore della nuova legge premetteva quella diuturna astinenza alla sua predicazione, come avea già fatto sul Sinai Mosè, a cui Dio avea data l'antica, e come avea fatto Elia, il massimo profeta che in quella fiorisse. Così in questo sacrosanto digiuno di quaranta giorni si convennero, come notò S. Agostino', la Legge, significata per Mosè, i Profeti, rappresentati per Elia, e l' Evangelo, espresso degnamente pel sovrano suo autore, che è Cristo. Fino al presente si mostra ai pellegrini, a qualche distanza dalla sponda del Giordano e presso a Gerico, in mezzo al deserto, un alto monte d'ogni parte scosceso, il quale chiamano della Quarantena, perchè la tradizione del paese vuole, in quello avere Gesù digiunato i quaranta giorni.

Il digiuno volontario, per un fine virtuoso qualsiasi, è nobile esercizio di quel dominio regale, che alla parte superiore di noi compete sopra l'inferiore; e sarebbe atto lodevolissimo, quand'anche non avesse altro scopo, che acquistare o raffermare

quel dominio stesso, che è tanta parte, ed anzi è quasi il tutto, anche standone ai soli termini della natura, della morale perfezione dell' uomo. Di che mi parve sempre pienissima di sapienza pratica quella usanza, onde i buoni educatori fanno d'indurre soavemente i fanciulli ad astenersi talora di qualche cibo più ad essi caro; d'un frutto, d'un zuccherino, nella persuasione di fare così un ossequio alla Vergine benedetta, all' Angelo Custode od a qualche Santo. Chi capisce quanto rileva l'abituare di buon'ora quella pieghevole età a padroneggiare le proprie propensioni, intenderà eziandio, come i fioretti, benchè praticati dai fanciulli, sono cosa tutt'altro, che fanciullesca. Se questo non si faccia, o qualche cosa somigliante a questo, ed ai bimbi si lascino spuntare tutte le vogliette, se ne avranno codesti uomini dal mento irto di peli, e dal cuore di cartapesta, a cui espugnare basta talora un pollo arrosto od un ghiotto manicaretto.

Per noi Cristiani, oltre a questo scopo morale, il digiuno ne ha molti altri, che potrebbero vedersi raccolti in quelle belle parole della nostra liturgia: Vitia comprimit, mentem elevat, virtutem largitur et praemia. Ma quì ricorderò del digiuno un altro propriissimo effetto, che potrebbe dirsi espiativo; in quanto la sofferenza, che accompagna la privazione del cibo alquanto prolungata, si toglie ad espiare, almeno in parte, le pene di colpe, le quali, quantunque rimesse quanto al reato, lasciano dietro a sè un debito di pena, cui non ci è dato saldare, che per opere satisfattive. Di qui voi vedete (per dirlo qui di passata) qual triste segno di scadimento nello spirito cristiano si abbia al presente in quella dilicatezza esagerata, anche di persone timorate, alle quali tutta la indulgenza, che la Chiesa ha recata in questa materia, neppure basta; e tanto studiano per attenuazioni e dispense, che oggimai i rari e lievi digiuni prescritti, già per sè molto poca cosa, sono ridotti per esse a quasi nulla. Ma se ne accorgeranno a suo tempo! A pur supporre, che tutto in quelle dispensazioni proceda legittimamente ed in piena regola, questo non potrà fallire, che ei debbano, nell' altra vita, col fuoco penace del Purgatorio, ragguagliare quelle ragioni, le quali, a tanto migliori patti, avrebbero potuto comporre in questa con quell'astinenza non grave, ed impreziosita dal merito dell' obbedienza.

Quei due fini del digiuno, che dissi testè, il morale cioè e

l'espiativo potevano molto bene aver luogo in Cristo; non tuttavia per lui, sì veramente per noi. Essendo egli verissimo uomo, dovea avere necessità di cibo, come noi abbiamo; e la prolungata privazione di questo dovea in lui produrre quella sofferenza, che naturalmente ne conséguita; e benchè il perfettissimo dominio, che la sua parte superiore avea sopra la inferiore, escludesse ogni sforzo, non escludeva nondimeno la sofferenza stessa, e la necessaria ripugnanza, che a quella sente la natura. L'averla pertanto incontrata, e sì lungamente sostenuta, senza alcun bisogno ch' ei ne avesse, era nel Signor N. imitabile esempio dato a noi, i quali ne abbiamo, per entrambi i capi, il morale, cioè e l' espiativo, tanto uopo, ed era, al tempo stesso, parte della espiazione assuntasi dei nostri peccati. Vero è che per effetto della visione beatifica, della quale la sua anima non cessò mai di godere, e per opera della sua onnipotenza, egli avrebbe potuto cassare da sè ogni qualsiasi senso di patimento. Questo nondimeno fu uno dei più stupendi misteri del suo amore (e vi dovremo tornare di proposito altra volta), che ei trovò modo miracoloso di soggiacere ad ogni maniera di sofferenze, quantunque la sofferenza fosse cosa cotanto estranea anche al naturale suo essere.

Ma se la onnipotenza non entrò in quel caso a rimuovere la sofferenza, ben dovette entrarvi per prolungarla; merce cchè, non potendo l'uomo durarla quaranta giorni senza alimento, dovette Cristo, in quanto Dio, sostenere se medesimo in quanto uomo, come con Mosè e con Elia avea fatto, e come di altri Santi si legge nelle storie ecclesiastiche. Alla fine dei quaranta giorni egli pare indubitato, che avesse luogo in Gesù qualche segno esteriore di quell'estremo sfinimento, a cui la sua umanità dovea essere venuta, per effetto di un così lungo digi uno. Questo mi pare volersi significare da S. Matteo e S. Luca col notare, come, in capo a quei giorni, il Signore ebbe fame, esuriit, o, come ha, con voce più espressiva, il greco, éπeivaσev; e di fatti al semplice esurire non si richieggono i giorni, ma bastano le ore e d'altra parte quell' avere espressamente notato ciò, che nel resto s'intendea da sè, ci mostra, che qualche effetto esteriore ne dovesse essere seguito. Maggiormente che appunto da quella specie di sfinimento o languore sembra aver presa occasione il diavolo di tentarlo; cioè di far pruova di lui, come

suona la voce latina ed italiana tentare. La quale, benchè sia usata eziandio per istigare al male, significa propriamente il pigliare sperimento di cosa o persona a fine di conoscerne le disposizioni e la portata; e così voi pure solete dire di tentare se la corda sia abbastanza forte, o la fantesca sia abbastanza fedele. Ma io veggo, che tutto ciò ha bisogno di qualche schiarimento.

III. Essendo questa la prima volta, che, nella esposizione del Vangelo, ci viene innanzi questo personaggio poco gradito del diavolo, che molto spesso nel séguito ci dovrà venire tra i piedi, sarà bene impararlo a conoscere un po' da vicino, standone, s'intende, molto lontani colla volontà e colla persona; premunendo l'una colla Fede, l'altra col segno santo della Croce. So che alcuni pretesi spregiudicati fanno le viste di non ci credere; e dicono di ridersi di tutti i diavoli e di tutte le diavolerie. Ma veramente io non so intendere qual ragione possano avere costoro di così pensare, se non fosse, quella fisima dei Materialisti di non ammettere nulla, che essi non possano vedere cogli occhi, e toccare colle mani. Se noi, per pensare alla nostra anima, dobbiamo concepire uno spirito congiunto alla materia, non si vede perchè non si possa concepire uno spirito, che stia da sè, senza quell' accoppiamento, e come dovrà stare certamente la nostr' anima stessa, separata che sarà dal corpo. Anzi il concepire lo spirito da sè senz'altro, mi pare tanto più facile, quanto che a questo modo non s'incontra quella difficoltà gravissima, che è l'intenderlo come parte sustanziale di un essere sensibile, il quale tuttavia dev'essere uno: difficoltà, che è forse la massima di quante se ne scontrano nella naturale filosofia; la quale difficoltà i moderni scienziati sono tanto lontani dal potere risolvere, che per poco neppure sanno che vi sia, e quanto rilevi, a conoscere l' uomo, il risolverla*.

Ora dovendo questi spiriti avere intelletto, anzi essendo, come li chiama S. Tommaso intelligenze separate, debbono per conseguenza essere dotati di libero arbitrio, pel quale siano capaci di bene e di male morale, e quindi di premio o di gastigo, secondo che all' uno od all' altro liberamente si apprendono. Questo ce ne dice la ragione; ma lo disse sempre e lo disse a tutti; tanto che questa credenza intorno agli spiriti si trova nel ge

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