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Quest'ultima preghiera, Signor caro,

Già non si fa per noi, che non bisogna;
Ma per color che dietro a noi restaro.
Così a sè et a noi buona ramogna

Quelle ombre orando, andavan sotto 'l pondo
Simile a quel che talvolta si sogna,
Disparmente angosciate tutte a tondo,
E lasse su per la prima cornice,
Purgando la caligine del mondo.
Se di là sempre ben per noi si dice,

Di quel che dir e far per noi si puote
Da quei, ch'anno al voler buona radice,
Ben si dè lor aiutar levar le nuote,

Che portar quinci, sì che mondi e levi
Possano uscir delle stellate ruote.
Doh se giustizia o pietà vi disgrevi

Tosto, sì che possiate muover l'ala,
Che secondo 'l disio vostro vi levi,
Mostrate da qual mano in ver la scala

Si va più corto; e se ci à più d'un varco,
Quel ne insegnate che men erto cala:
Chè questi che vien meco, per lo incarco
De la carne d'Adamo ond' ei si veste,
A montar su contra sua vollia è parco.
Le lor parole, che rendero a queste

Che ditto avea colui che io seguiva,
Non fur da cui venisser manifeste;
Ma ditto fu: A man destra per la riva
Con noi venite, e troverete il passo
Possibile a sallir persona viva.

v 32. C. A. Di quà che dire

v. 37. C. A. Deh se giustizia e pietà

v. 34. C. A. loro atar lavar le

v. 4. C. A. e se c'è

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E s'io non fussi impedito dal sasso,
Che la cervice mia superba doma,
Unde portar conviemmi il viso basso,
Cotesti, ch' ancor vive e non si noma,

Guardere' io, per veder s' io il cognosco,
E per farlo pictoso a questa soma.
Io fui Latino, e nato d'un gran Tosco:

Guillielmo Aldobrandesco fu mio padre:
Non so se'l nome suo giammai fu vosco.
L'antiquo sangue e l'opere leggiadre
De' mie' maggior mi fer sì arrogante,
Che non pensando a la comune madre,
Ogni uno ebbi in dispetto tanto avante,
Ch'io ne mori', e i miei Senesi il sanno,
E sallo in Campagnatico ogni fante.
Io son Omberto; e non pur a me danno
Superbia fe, ma tutti miei consorti
À ella tratti seco nel malanno.

E qui convien ch'io questo peso porti
Per lei, tanto che a Dio si sodisfaccia,
Poi ch'io nol fei tra' vivi, qui tra' morti.
Ascoltando io chinai in giù la faccia;

Et un di lor (non questi che parlava)
Si torse sotto l peso che lo impaccia:
E viddemi e cognovemi, e chiamava,
Tenendo li occhi con fatica fisi

A me, che tutto chin con lui andava.

v. 58. Io fui Latino. Omberto degli Aldobrandeschi era nato in Toscana, ma salica era la sua casa e salico il diritto, con cui ella visse, quando fa condotta da Carlomagno in Italia, E.

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O, dissi lui, or non se tu Oderisi,

L'onor d'Agobbio, e l'onor di quell'arte
Che alluminar è chiamata in Parisi?
Frate, diss' ello, più.riden le carte,

Che pennelleggia Franco bolognese;
L'onor tuttor è suo, e mio in parte.
Ben non serei io stato sì cortese,

Mentre ch' io vissi, per lo gran disio
Dell' eccellenzia ove mio cuor intese.
Di tal superbia qui si paga il fio;

Et ancor non serei qui, se non fosse,
Che, potendo peccar, mi volsi a Dio.

O vanagloria de l'umane posse,

Com poco verde in su la cima dura,
Se non è giunta da l'etati grosse!

Credette Cimabue ne la pittura

Tener lo campo; et or à Giotto il grido,
Sì che la fama di colui oscura.
Così à tolto l'uno all' altro Guido

La gloria de la lingua, e forsi è nato

Chi l'uno e l'altro caccerà del nido.

Non è l mondan romor altro che un fiato

Di vento, ch'or vien quinci, et or vien quindi,
E muta nome, perchè muta lato.

Che voce avrai tu più, se vecchia scindi
Da te la carne, che se fussi morto

Anzi che tu lassiassi il pappo e'l dindi,

v. 79. C. M. C. A. Odorisi,

v. 84. C. A. chiamata è in

v. 84. Parisi. Con buona pace de' pedanti l'Allighieri non fu costretto alla rima a questa ed altre terminazioni: perocchè si à indifferentemente anhe nella prosa Dionisi, Parisi, Tamisi e Dionigi, Parigi, Tamigi. E.

v. 83. C. M. che privilegia

v. 92. C. M. Ch'un poco. v. 94. C. A. pintura

v. 87. C. A. a che mio core

C. A. Con poco

v. 96. C. A. è oscura.

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Pria che passin mille anni? che è più corto
Spazio a l'eterno, che un muover di cillia,
Al cerchio che più tardo in cielo è torto.
Colui, che del cammin sì pogo pillia

Dinanzi a me, in Toscana sonò tutta,
Et ora a pena in Siena sen pispillia,
Ond'era Sire, quando fu destrutta

La rabbia fiorentina, che superba
Fu a quel tempo, sì com' ora è putta.
La vostra nominanza è color d'erba,

Che viene e va, e quei la discolora,
Per cui ella esce de la terra acerba.
Et io a lui: Lo tuo ver dir m'incora

Buona umiltà, e gran tumor m' appiani;
Ma chi è quei di cui tu parlavi ora?
Quelli è, rispose, Provenzal Selvani;
È qui: però che fu presuntuoso

A recar Siena tutta in le sue mani.
Ito è così, e va senza riposo,

Po' che morì: cotal moneta rende
A sodisfar chi è di là troppo oso.
Et io: Se quello spirito che attende,
Pria che si penta, l'orlo de la vita,
Qua giù dimora, e quassù non ascende,

Se buona orazion lui non aita,

Prima che passi tempo quanto visse,
Come fu la venuta a lui largita?
Quando vivea più glorioso, disse,

Liberamente nel campo di Siena,
Ogni vergogna deposta, s'affisse:

v. 444. C. M. C. A. com'è ora putta. v. 445. C. M. La nostra
v. 124. C. M. Provenzan Silvani;

v. 128. C. A. all' orlo

v. 423. C. A. alle sue

v. 129. C. A. Laggiù dimora,

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E lì, per trar l'amico suo di pena,

Che sostenca ne la prigion di Carlo,
Sè condusse a tremar per ogni vena.
Più non dirò, e scuro so ch'io parlo;

Ma poco tempo andrà, che i tuo' vicini
Faranno sì che tu potrai chiosarlo:
142 Quest' opera li tolse quei confini.

v. 436. C. A. Elli, per

COMMENTO

O Padre nostro ec. Questo è lo canto XI, nel quale l'autore nostro ancora de li superbi tratta, come in quello di sopra; e dividesi prinipalmente in due parti: imperò che prima lo nostro autore finge come quelli, che si purgavano nel primo balso del peccato de la suerbia, cantavano l'orazione che Cristo insegnò, quando fu nel mondo, i suoi discepoli, dicendo: Cum oraveritis, sufficit dicere: Pater noster, uies in Cælis ec.; e come ne ricognove alcuno e parlò con lui; ne la econda finge come cognoscesse alquanti che ebbeno superbia di oro artificio, quive: Ascoltando io chinai ec. La prima che serà la rima lezione, si divide in cinque parti: imperò che prima l'autore one de verbo ad verbum in vulgare l'orazione del Pater nostro, che inge che coloro cantasseno che si purgavano nel primo balso de la uperbia; ne la seconda pone l'autore alcuna dichiaragione fatta l'alcuna parte de la ditta orazione, e lo conforto de l'autore che er loro si preghi, quive: Quest'ultima ec.; ne la tersa finge come irgilio dimanda de la montata a l'altro balso, quive: Doh se giustiec.; ne la quarta finge come uno rispondesse, non cognosciuto hi elli fusse, quive: Le lor parole, ec.; ne la quinta finge come elli i manifesta, quive: Io fui Latino, ec. Divisa adunqua la lezione, ora da vedere lo testo co le suoe esponizione.

sia

| C. XI — v. 1–24. In questi sette ternari lo nostro autore pone atta stesa l'orazione del Pater nostro, che finge che cantavano quelle anime che si purgavano del peccato de la superbia in su la rima cornice, dicendola in vulgare; et adiungendovi alcuna cosa li suo, a dichiaragione de le parole che vi sono, dicendo così: 0 Padre nostro; cioè Iddio, al quale si conviene questo nome; prima per la creazione: imperò che ogni cosa àe creato; e dice nostro, per

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