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trui che per Stazio, dunqua appare compiuto: imperò che li Poeti, non compiendo l'opera, nolla correggeno; e compiuta la rivedeno e correggeno, e però non so pensare che cagione movesse lo nostro autore a dire cusì; se non forsi che ebbe nel proemio quello altro intendimento, dove pare promettere di dire di tutte l'altre cose d'Achille, de le quali non disse Omero poeta greco; e per tanto a ditto che, caddi co la seconda soma; cioè co la seconda opera, in via: cioè nel viaggio, che nolla potè riducere al suo fine. Al mio ardor; dice Stazio, continuando lo suo parlare, che al suo ardore; cioè al suo splendore, per lo quale elli è venuto in fama e gloria, fur seme le faville; continua la similitudine: come lo seme è lo principio, unde nasce l'erba; così le faville funno (1) principio de lo splendore di Stazio: imperò che da la favilla, come da principio effittivo (*), nasce lo fuoco che risplende, Che; cioè le quali faville, mi scaldar; cioe acceseno me Stazio, de la divina fiamma; cioè de lo splendore divino de la poesi la quale era consecrata ad Apolline, sì come maestro de la teoria (3), et a Baco sì come maestro de la pratica; unde Lucana in primo: Nec si te pectore vates Accipio, Cirrhaea velim secreta moventem Sollicitare deum, Bacchumque avertere Nysa; o volliamo intendere che dica divina; cioè avansante ogni ingegno umano: impere ch'elli intende, come si dichiara di sotto, de la poesi de le Eneide di Virgilio, e l'autore lo prese dell'ultima parte de la Teibaide (5) di Stazio, dove dice: Nec tu divinam Eneida tenta, Sed longe sequere, & vestigia semper adora —. Unde; cioè da la quale fiamma de la poesi. son già allumati; cioè fatti famosi e gloriosi, più di mille; cioè omini. imperò che per la poesi sono fatti famosi molti omini che non serebbeno, e sì li Poeti e sì le persone nominate dai poeti. Dell' Eneude dico; cioè io Stazio: ecco che dichiara di qual fiamma intese di sepra; e dice che intese del libro (5) di Virgilio che si chiama Eneide, perchè in esso trattò de l'avvenimento di Enea troiano in Italia, del quale disceseno li Romani. Unde vegnano li primi movimenti in noi, noi non sappiamo, e però li pone l'autore nostro come seme posto da Dio ne le nostre menti, sì ch'elli finge che Stazio dica: lo ebbi desiderio d'esser poeta; et unde venisse questo nol dichiara, se non che questo ardore fu suscitato da faville, ch'erano ne la mente sua come seme; e questo desiderio l'accese ad adamare la poesi dell'Eneide di Virgilio, la quale è divina per respetto dell'al tre: imperò che eccede ogni ingegno umano; e da quella ànno preso più di mille; cioè infiniti omini, quale ad esser poeta, quale ad esser

(1) C. M. fanno splendore dello splendore (2) C. M. effettivo,
(3) C. M. la teorica,
(*) C. M. Tebaide
(5) C. M. del libro de l'Eneide che si chiama Eneide,

retorico, chi ad uno fine e chi ad uno altro. E di quinde dice aver preso elli, e però dice: la qual; cioè Eneide, mamma; cioè puppulla (') la la quale io abbo succhiato, come lo fanciullo lo latte nutritivo le la sua vita, così lo modo de la mia poesi abbo cavato quinde, Fumi; cioè a me Stazio, e fùmi nutrice; questo è espositivo di quil he è ditto, cioè la qual mamma fùmi, et è colore retorico che si hiama interpretazione (2); et in quanto dice fùmi, e fùmi è colore che i chiama conduplicazione; cioè l'Eneide fùmi nutrice poetando: nperò che come la nutrice governa lo fanciullo in tutti i suoi isogni; cusì quella, me Stazio in tutti li atti de la mia poesi. Sena essa; cioè sensa l'Eneide, non fermai peso di dramma: dramma è ottava parte d'una oncia; quasi dica: Sensa la poesi di Virgilio non rmai nulla ne la mia. E per esser vissuto di là; cioè nel mondo, uando Visse Virgilio, assentirei un Sole Più che non deggio, al no uscir di bando; cioè per essermi trovato con Virgilio in vita, onsentrei stare in purgatorio, e penare ad andare in paradiso uno orso solare più che non debbo: ecco che ben mostra grande affeione a Virgilio: un Sole si può intendere una revoluzione che 'l ole fa per li segni, e questo serebbe uno anno. E benchè grande pazio sia al desiderio de la beatitudine, pur pare piccula cosa a noi jondani, misurandolo co lo eterno; e così mostrerebbe poca affeione; ma si può intendere uno ciclo (3) solare, che si compie in anXXVIII; ma io credo che l'autore. intendesse pur d'uno anno: imerò ch'è grande tempo uno anno a chi sta in pena,

terna.

et aspetta vita

C. XXI—v. 403–411. In questi tre ternari lo nostro autore finge ome Virgilio li fece cenno che tacesse; ma non si potè attenere che on sorridesse, e però dice: Volsen Virgilio a me; cioè fenno volgere me Dante, queste parole; le quali disse Stazio ditte di sopra, Con iso; cioè con atto nel volto, che tacendo; cioè che non dicendomi ulla, disse: Taci; cioè io intesi che elli volea che io tacessi. Ma on può tutto la virtù che vole; cioè la virtù volitiva non può otteere cioe ch' ella vuole, e massimamente ne le nostre passioni: pesse volte l'omo piange che non vorrebbe, e così ride; e però dice 'autore: Chè riso e pianto; che sono due atti che procedono da pasione, son tanto seguaci; cioè de le passioni, unde descendeno; cioè riso da l' allegressa, e lo pianto dal dolore; e però dice: A la pasion da che; cioè da la quale, ciascun si spicca; cioè di quelli atti di opra nominati, si spicca; cioè procede sì, come da sua cagione, Che nen seguen voler; cioè (*) che men fanno quel che la volontà vuole, nei più veraci; cioè nelli omini più veritieri che non si fanno (3) infin

1) C. M. puppola

(3) C. M. un circulo solare,

(*) C. M. interpetrazione; cioè l'Eneide
(*) C. M. cioè fanno (5) C. M. si sanno

gere, che quello ch'anno d'entro mostrano di fuori. Io; cioè Dante. pur sorrisi; cioè sogghignai, non potendomi tenere, come l'om che ammicca; cioè come chi accenna ad altri, Per che; cioè per lo qual sorridere, l'ombra; cioè Stazio che prima parlava, si tacque; cioè non disse più, e riguardommi; cioè me Dante. Nelli occhi; cioè miei, ove 'l sembiante; cioè l'atto esteriore d'allegressa o di dolore, più s ficca; che in nessuna altra parte del corpo umano: imperò che ne la risa (1) l'occhio s'apre e grilla, e nel pianto chiude e gietta fuor lagrime. Et è qui da notare che le nostre passioni dell'anima sono si comunicative a certi membri esteriori del corpo, che come sono nell'anima immantenente si dimostrano nei ditti membri, come esemplificato è del riso e del pianto; e per mostrare questo, lo nostra autore àe fatta questa fizione.

C. XXI — v. 442–120. In questi tre ternari lo nostro autore finge come li parea esser preso, se non ch'ebbe licenzia da Virgilio di potere rispondere; e però dice: Deh, se tanto lavoro; quanto è quello che tu ài preso a fare, in bene assommi; cioè arrechi a buono fine, Disse; cioè Stazio a me Dante, perchè la tua faccia; cioè di te Dante, testeso; cioè al presente, Un lampeggiar di riso; cioè uno aprimesto di risa: imperò che Dante fece come fa lo lampo, che prima apre l'aire quando esce fuora, e possa chiude, e cusì fece Dante: prila aperse li occhi a ridere mosso da passione, avendo allegrezza che tanto bene volesse Stazio al suo maestro Virgilio, e possa chiuse per obedire Virgilio che l'avea ammonito che tacesse, dimostrommi; cioè ..... a me Stazio; cioè dimmi la cagione? E quinci si può prendere nolabile, che l'omo si dè guardare di ridere in cospetto d'altrui: impero che altri nè pillia sospetto, s' elli non sa la cagione; e però dice: Or son io; cioè ora sono io Dante, d'una parte e d'altra preso; cioè dal-] l'una parte e dall'altra; cioè da Stazio e da Virgilio. L'una mi a tacer; cioè Virgilio, che m'àe accennato ch'io taccia, l'altra; cioe parte, cioè Stazio, scongiura; cioè mi prega con ossecrazione, Ch dica; cioè ch'io Dante dica perchè io sorrisi. ond'io; cioè per la qual cosa io Dante, sospiro; perchè non so che mi faccia, e sono inteso Dal mio Maestro; cioè da Virgilio. e non aver paura, Mi dice; cioè a ine Dante Virgilio, di parlar; cioè a Stazio, ma parla, e dilli Quel che e' dimanda con cotanta cura; cioè dilli apertamente la cagione perchè sorridesti, sicchè tu lo cavi di sospetto. Virgilio avea acces nato Dante che tacesse, perchè non interrompesse lo parlare di Stazio; ma poi che vidde Stazio dubitare del sorridere di Dante, lo conforta ch'elli dica e che lo certifichi: la ragione sempre conforta che l'omo non dia sospetto di sè ad altrui.

(1) C. M. nel riso

(*) C. M. uno apparimento di riso

C. XXI-v. 124-129. In questi tre ternari lo nostro autore finge come, avuta la licenzia da Virgilio, elli prese a parlare a Stazio e dichiarollo de la cagione del suo ridere, dicendo: Ond'io; cioè per la qual cosa io Dante, avuta la licenzia da Virgilio dissi, s'intende: Forsi che tu ti meravilli, Antiquo spirto; ben può chiamare antiquo spirto Stazio, che più di 500 anni era stato in purgatorio, come appare li sopra, del rider ch'io fei; cioè diansi, quando tu parlavi, Ma più l'ammirazion vo che ti pilli; ecco che l'autore parla corretto, dimotrando che le passioni pilliano noi, e non noi loro; e però dice: ti illi; cioè pigli te. Questi; cioè colui con cui io sono, che guida in lto li occhi miei; cioè la ragione che guida la sensualità mia e che 'à come poeta mosso a questa poesi; e questo ditto è mellio ad atenderlo secondo la lettera al presente, È quel Virgilio; ecco che ur secondo la lettera si dè intendere, dal qual; cioè Virgilio, tu lliesti; cioè tu, Stazio, Forsi a cantar delli omini e de' dei; cioè a river la Tebaide e l'Acchilleide, ne le quali si fa menzione delli mini e delli iddii. Se cagion altra; cioè che quella, ch'io t'abbo itto, a mio rider credesti; tu Stazio, Lassala per non vera; ecco he certifica Dante Stazio de la cagion del suo ridere, et esser credi; 1, Stazio, Quelle parole che di lui dicesti; ecco che conferma Dante loda di Virgilio.

C. XXI v. 130-136. In questi due ternari et uno verso lo stro autore finge come Stazio, udito che quelli era Virgilio, lo volse bracciare ai piedi per riverenzia, dicendo: Già s'inchinava; cioè tazio, com' io Dante ebbi detto le parole ditte di sopra di Virgilio, labbracciar li piedi Al mio Dottor; cioè a Virgilio; e questo finge autore, per mostrare ch' el volesse riverire come maggiore, ma li; cioè Virgilio, disse; cioè a Stazio: Frate; ecco che 'l chiama atello, perchè tutti siamo (') usciti da uno padre, Non far; cioè non bracciare, che tu se' ombra; cioè imperò che tu se' ombra, et om'a vedi: imperò che io anco sono ombra, e l'ombre sono impalpali se non a sostener pena, come di sopra è stato dichiarato. Et ei; oè Stazio, surgendo; cioè levandosi suso disse a Virgilio, s'intende: r poi la quantitate Comprender de l'amor; cioè tu, Virgilio, che a mi scalda; cioè lo quale amore, mi scalda; in verso di te, Quanio; cioè Stazio, dismento nostra vanitate; cioè non mi appensava a che tu eri ombra et io, Trattando; cioè volendo trattare e traf care, l'ombre; dichiarato è stato per me di sopra, perchè si chiaino ombre, come cosa salda; cioè come cosa solida e palpabile, me è lo corpo. E qui finisce lo canto XXI, et incomincia lo canto XXII.

(1) C. M. siamo fatti da uno

PURG. T. II.

35

33

CANTO XXII.

4

7

40

13

16

19

Già era l'Angel dietro a noi rimaso,
L' Angel che n' avea volti al sesto giro,
Avendomi dal viso un pecco raso;

E quei ch' ànn' a giustizia il lor disiro,
Detto n' avean, Beati, e le sue voci,
Con sitio, senz'altro, ciò forniro.

Et io più lieve che per l'altre foci
M' andava sì, che senza alcun labore
Seguiva in su li spiriti veloci,
Quando Virgilio cominciò: Amore

Acceso da virtù sempre altri accese,
Pur che la fiamma sua paresse fore.

Unde dall' ora che tra noi discese

Nel limbo dello inferno Giuvenale,
Che la tua affezion mi fe palese,
Mia benvollienza in verso te fu quale

Più strinse mai di non vista persona,
Sì ch'or mi parran corte queste scale.
Ma dimmi; e come amico mi perdona,
Se troppa sigurtà m'allarga il freno,
E come amico omai meco ragiona:

v. 3. C. A. un colpo v. 14. C. A. di virtù sempre altro v. 14. C. M. Dr

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