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v. 1-18. Proemio. Sin dal principio del Purg. paragonava il poetico suo viaggio ad una navigazione sul mare. Li però e' parlava umilmente della navicella del suo ingegno che, lasciando dietro a sè crudelissimo mare, alza le vele per correre acque migliori. Quì il linguaggio del Poeta è diventato assai più pomposo. La sua non è più una navicella, sì un legno che cantando varca maestoso le onde. E dall' alto del legno suo il Poeta respinge le barche picciolette che per ascoltare il canto suo gli tennero dietro sin quì, affinchè mettendosi in pelago e perdendo lui, non rimangano smarrite. Ben invita a seguitarlo que' pochi che già di buon' ora cercarono la sapienza. E anche costoro egli esorta di attenersi al solco che fa egli nell' onda, innanzi che si rappiani. E, vantandosi della inspirazione di Minerva, della guida di Apollo e del favore delle Muse, egli annunzia a chi lo segue maraviglie maggiori di quelle che videro gli Argonauti. Non si può negare che questo proemio è soverchiamente pomposo. I concetti si riscontrano col proemio al Convivio, ma lì e' usa linguaggio di gran lunga più modesto. «Io adunque, che non seggo alla beata mensa, ma, fuggito dalla pastura del volgo, a' piedi di coloro che seggono, ricolgo di quello che da loro cade, e conosco la misera vita di quelli che dietro m' ho lasciati, per la dolcezza ch' io sento in quello ch' io a poco a poco ricolgo, misericordevolmente mosso, non me dimenticando, per li miseri alcuna cosa ho riservata, la quale agli occhi loro è più tempo ho dimostrata, e in ciò gli ho fatti maggiormente vogliosi. Per che ora volendo loro apparecchiare, intendo fare un generale convito di ciò ch' io ho loro mostrato, e di quello pane ch'è mestiere a così fatta vivanda, senza lo quale da loro non potrebbe esser mangiata a questo convito; di quello pane degno a cotal vivanda, qual io intendo indarno essere ministrata. E però ad esso non voglio s' assetti alcuno male de' suoi organi disposto: perocchè nè denti, nè lingua ha, nè palato; nè alcuno settatore di vizii: perocchè lo stomaco suo è pieno d' umori venenosi e contrarii, sicchè mia vivanda non terrebbe. Ma vegnaci qualunque è per cura famigliare o civile nella umana fame rimaso, e ad una mensa cogli altri simili impediti s'assetti: e alli loro piedi si pongano tutti quelli che per pigrizia si sono stati, chè non sono degni di più alto sedere.»> Conv. tr. I, c. 1. Il proemio al presente canto ricorda il principio del poema di Lucrezio sulla natura delle cose. Ma mentre il Tasso (C. I. st. 2. e 3.) traduce alla lettera i versi di Lucrezio, il nostro non vi accenna che da lungi; cfr. Schlosser, Dante-Studien, pag. 254 e segg. Paganino, Navigatione di Dante, nella sua opera Accademia disunita, Pisa 1635, pag. 197-201.

1. IN PICCIOLETTA BARCA: con picciol corredo di scienza filosofica e teologica. Cfr. Inf. VIII, 15. «A volere perfettamente intendere la pre

Desiderosi d'ascoltar, seguiti

Dietro al mio legno che cantando varca, 4 Tornate a riveder li vostri liti:

Non vi mettete in pelago; chè forse,

sente Commedia, ha bisogno allo 'ntenditore essere instrutto in molte scienze, imper quello che l' Auttore usa molte conclusioni, molti argomenti, molti esempli, prendendo per principj tali cose e sì diverse, che sanza scienzia acquistata non se ne potrebbe avere perfetta cognizione.» Lan. copiato dall' Ott. e dall' An. Fior.

3. DIETRO: Berl., Caet., Crus.. ecc. RETRO: St. Cr., Vat., Cass., Wit., ecc. - VARCA: S' apre un varco, trapassa, ad altre acque. Giul.

4. TORNATE: è il Virgiliano: Procul, o procul este, profani! Aen. VI, 258. Molti danno retta al consiglio di Dante, e giunti, Dio sa come, sino alla fine del Purgatorio, tornano a rivedere i loro liti. Goethe non fu il solo al quale il Paradiso sembrava nojoso. «L'ultima Cantica è tra le tre parti, tutte difficili e sovente oscure della Commedia, quella che ha nome di più difficile ed oscura. Nè il nome inganna; e invano sforzerebbesi chicchessia di ridestar nel comune de' lettori l'attenzione che Dante non procacciò a sè stesso. Il comune de' lettori è, e sarà sempre trattenuto dagli ostacoli e dalle allegorie qui crescenti, dall' ordine de' cieli disposto secondo il dimenticato sistema di Tolomeo, e, più di tutto, dalle esposizioni di filosofia e teologia, cadenti sovente in tesi quasi scolastiche. Eccettuati i tre canti di Cacciaguida, ed alcuni altri episodii, ne' quali si ritorna in terra, e i frequenti ma brevi versi in che di nuovo risplende l'amore e Beatrice, il Paradiso sarà sempre meno lettura piacevole all' universale degli uomini, che non ricreazione speciale di coloro a cui giovi ritrovare espressi in altissimi versi quelle contemplazioni soprannaturali che furono oggetto de' loro studj di filosofia e di teologia. Ma questi studiosi di filosofia e teologia, che sempre saran pochi, e quelli principalmente, che pur troppo sono ancora pochissimi, a cui quelle due scienze appariscono quasi una sola cercata con due metodi diversi: questi troveranno nel Paradiso di Dante un tesoro, ch' io mal dissi di ricreazioni, ed è anzi d'altissime e soavi consolazioni, annunziatrici di quelle del vero paradiso. Ed oltre tutti, poi, se ne diletteranno coloro, che si trovino leggendo in disposizione somigliante a quella di Dante quando scrisse; quelli, cioè, che dopo avere in gioventù tentato variamente il mondo in cui vissero e pretesero vivere felici, giunti poscia a maturità, vecchiezza, sazietà o disinganno, cerchino per mezzo di quegli studii a conoscere quanto è possibile quell' altro mondo ove sono oramai le loro nuove speranze.» Balbo, Vita di D., Fir. 1853, pag. 398 e seg. Tra i molti e molti, che seguitarono il Poeta in piccioletta barca e rimasero smarriti, non menzionerò che un celebre scrittore tedesco contemporaneo, Carlo Frenzel, il quale lasciò scritte queste parole: «Il Paradiso è un mucchio di rottami di simboli dimenticati, di pallidi concetti; simile ai deserti arenosi, ove sorgono le Rovine di Ninive.» (Unterhaltungen am häuslichen Herd. Herausgegeben von Karl Gutzkow. Lipsia 1855, No. 52. pag. 831). Il prof. Carlo Vogel di Vogelstein scrisse in margine al suo esemplare delle Unterhaltungen (il qual esemplare è ora nella mia biblioteca): «Oh, che imbecillità!» Bastava scrivere: «Tornate a riveder li vostri liti.»>

5. PELAGO: Virg. Aen. V, 8. 9:

Ut pelagus tenuere rates nec iam amplius ulla
Occurrit tellus, maria undique et undique cœlum.

La stesse figura Conv. II, 1: «Lo tempo chiama e domanda la mia nave uscire di porto: per che drizzato l' artimone della ragione all' ôra del mio desiderio, entro in pelago con isperanza di dolce cammino e di salutevole porto e laudabile.» Tom. ricorda le parole: «Lo pelago del trattato», Conv. I, 9. Ma pelago è in questo luogo lezione errata e convien leggere processo, come hanno col cod. Ricc. Frat., Giul. ecc.

Perdendo me, rimarreste smarriti.

7 L'acqua ch' io prendo giammai non si corse:
Minerva spira, e conducemi Apollo,

E nove Muse mi dimostran l' Orse.

6. PERDENDO: non avendo forze sufficienti a seguitare la mia traccia. 7. L'ACQUA: la materia che ora imprendo a cantare non fu ancor mai pertrattata col canto. Non poche visioni dell' Inferno e del Purgatorio erano in voga ai tempi di Dante; nessuno aveva però ancora usato descrivere poeticamente il Paradiso e cantare La gloria di Colui che tutto muove. 8. MINERVA: simbolo qui della scienza, specie della scienza delle cose divine. Dice dunque: La scienza divina è il vento che mi spinge; Apollo (già invocato nel canto antecedente v. 13 e seg.) è il mio timoniere; le Muse, cioè le Arti, sono la mia bussola. - SPIRA: come Ovid. Met. I, 2: Dii, cœptis... Aspirate meis.

9. NOVE: così i quattro codd. del Witte, Vienn., Stocc., Corton., più di 90 cod. veduti dagli Accad., 4 Patav. 41 codd. veduti dal Barlow (cfr. ejusd. Contributions pag. 325 e seg.) ecc. La Crusc. col Cass. e pochi altri codd. NUOVE. Oziosa è la questione se sia da leggere nove o nuove. Ma abbiam quì il plurale di nova (nuova novella) o il numero delle Muse? Udiam prima i commentatori ! Lan. e An. Fior.: «E nove Muse, cioè quelle nove Muse che discriveano gli poeti li dimostrano lo cielo.» Ott.: «E nove Muse, cioè le nove parti della scienza musica, le quali sono Clio, Euterpe, Melpomene, Talia, ecc.>> Il Post. Cass., che ha nel testo nuove, chiosa: idest novem virtutes et scientiæ. Anche Petr. Dant. parla di novem Musa. Il Falso Bocc.: «E nove Muse mi dimostran l'Orse, dice per le nove scienze Queste nove Muse furon tratte di greco in latino.» E nove pel numero delle Muse intesero pure Benv. Ramb., Buti, Land., Vell., Var. ecc. Il Dan. fu il primo a muover dubbio. Egli scrive: «Et nove Muse, perchè IX sono le Muse in numero, ovvero nove, cioè nuove, e non quelle medesime, che prima l'avevano favorito et ajutato.» Gli Accad. del 1595 notarono: «Gli antichi nel dittongo uo lasciavano per lo più nel verso la u, senza aver riguardo all' equivoco; e in questo luogo spezialmente guastavano il concetto al Poeta, come è stato prima dal nostro Infarinato avvertito.» Da quel tempo in poi si incominciò a contendere, se il Poeta parlasse delle nove Muse della mitologia, oppure di Muse novelle, create dalla sua fantasia. Accettarono e difesero la prima opinione: D' Aq., Vent., Lomb., Portir., ecc.; mentre altri non pochi (Dol., Vol., Perraz., Pogg., Biag., Tom., Br. B., Giul. ecc.) difendono l'altra. L' Andr. scrive: «A me pare che di Muse propriamente nuove non possa parlare il Poeta, avendo già dichiarato (C. I. v. 16-18) di voler continuare a servirsi delle antiche; che d' altra parte quel nove, inteso come numerale, sarebbe ozioso del pari che sgarbato: ma che ogni difficoltà si torrebbe intendendo queste Muse per nuove, non inquantochè diverse dalle solite, ma inquantochè messe per tutto nuovo cammino.» Ma non sapendo dal canto nostro scoprire nè l' oziosità nè la sgarbatezza, prefeferiamo di stare cogli antichi. Se il Poeta, come osserva il Filal., avesse voluto parlare di nuove Muse, e' avrebbe dovuto menzionare accanto ad esse eziandio una nuova Minerva ed un nuovo Apollo. Infatti il Bennas. c' insegna che «la novità del canto esige anche nuove divinità, come esige nuove Muse. La nuova Minerva, e il nuovo Apollo sarebbero la Sapienza divina e lo Spirito Santo che hanno sempre ispirato i Sacri Cantori, nel novero dei quali si pone anche Dante.» Ma di nuova Minerva e di nuovo Apollo il Poeta non ne fiata nemmeno. Anche il Febrer sta cogli antichi, traducendo: E noves Muçes me demostrent l'Orsa. Il francese Aroux poi ci regala questa saporitissima e pellegrina chiosa: La Minerve gnostique, le dieu de la lumière-raison et les neuf filles de mémoire, dont le nom, dérivé de myein, signifie qui explique les mystères, voilà le patronage sous lequel le poëte va aborder un ciel dans lequel l'Ourse romaine, la Calisto pontificale, est considérée comme la cause de toutes les misères du monde. MI DIMOSTRAN L' ORSE: m'indicano la direzione.

«Se

10 Voi altri pochi, che drizzaste il collo
Per tempo al pan degli Angeli, del quale
Vivesi qui, ma non sen vien satollo,

13 Metter potete ben per l'alto sale

Vostro navigio, servando mio solco

guita meravigliosamente la presa metafora, perciocchè come ciascuna nave ha bisogno di tre cose a salvamente giungere in porto, dei venti favorevoli che la spingano, d' un piloto pratico che la regga e governi, e di chi ne dimostri l' Orse, cioè il Polo, mediante il quale si naviga oggi: così ciascun poeta ha bisogno di tre cose principalmente, della invenzione ovvero subbietto, della disposizione ovvero ordine, dell' elocuzione ovvero ornato parlare.» Var.

10. POCHI: multi sunt enim vocati, pauci autem electi. Matth XX, 16. Cfr. Conv. I, 1. Thom. Aq. Sum. cont. Gent. 1. I. c. 4. COLLO levaste la mente.

DRIZZASTE IL

11. PER TEMPO: Qui mane vigilant ad me, invenient me, dice la Sapienza, Prov. VIII, 17. - PAN DEGLI ANGELI: Panem angelorum manducavit homo. Psl. LXXVII, 25. Pro quibus angelorum esca nutrivisti populum tuum, paratum panem de cœlo præstitisti illis. Sap. XVI, 20. Pane degli Angeli chiamano le Scritture Sacre la manna caduta dal cielo; il Nostro chiama così la scienza. << Oh beati que' pochi che seggiono a quella mensa ove il pane degli angeli si mangia, e miseri quelli che colle pecore hanno comune cibo!» Conv. I, 1. Nelle Scritture Cristo vien chiamato il pane della vita disceso giù dal Cielo, cfr. Joan. VI, 33. 35. 48. 51. 52. E sovente il pane è simbolo della parola di Dio, cfr. Deut. VIII, 3. Mat. IV, 4. Luc. XIV, 15. La Sapienza invita: Venite, comedite panem meum, Prov. IX, 5. Cibabit illum pane vitæ et intellectus, Eccles. XV, 5. «Lo cibo spirituale è la dottrina della vera sapienza, e non della mondana, a la quale ricevere s' inchina lo capo, perch' ella è bassa per la sua viltà; ma la vera sapienza è alta, perchè viene dal cielo, e però è bisogno a volerla ricevere che si levi lo capo in alto al Cielo, cioè lo desiderio e la intenzione tutta. » Buti.

12. VIVESI: Meus cibus est ut faciam voluntatem eius qui misit me, ut perficiam opus eius. Joan. IV, 34. «Vivere nell' uomo è ragione usare. Dunque se vivere è l'essere dell' uomo, e così da quello uso partire è partire da essere, e così è essere morto. E non si parte dall' uso della ragione chi non ragiona il fine della sua vita? E non si parte dall' uso della ragione chi non ragiona il cammino che far deve? Certo si parte.»> Conv. IV, 7. - NON SEN VIEN SATOLLO: perchè non possiamo averne tanta cognizione, che ci sazii e sia abbastanza in terra. Land. Satiabor cum apparuerit gloria tua. Psl. XVI, 15. «E questa parte (la speculazione) in questa vita lo suo uso perfettamente avere non può, il quale è vedere Iddio (ch'è sommo intelligibile) se non in quanto l'intelletto considera lui e mira lui per li suoi effetti. >> Conv. IV, 22. Il giusto sulla terra deliba la beatitudine celeste; il cibarsene è riserbato alla patria; la pace della coscienza e i gaudii dell' anima sono un conforto destinato a inanimare nel viaggio, come fa a chi corre un aringo la vista e l'olezzamento del premio collocato nella meta. Gioberti. Si ponno anche ricordare le parole di S. Paolo (II Cor. V, 7): Per fidem enim ambulamus et non per speciem.

sal.

13. SALE: il mare, che i latini dissero salum, ed anche semplicemente Cfr. Horat. Epod. XVII, 54. 55:

Non saxa nudis surdiora navitis
Neptunus alto tundit hibernus salo.

14. NAVIGIO: non disse barchetta, ma navigio, per dimostrare che essendo in gran legno e saldo, cioè usati a specolare, non portano pericolo di rimanere indietro e smarrirsi come quei primi. Var. -SERVANDO: seguendo il mio legno molto dappresso. Allude alla forte e continuata attenzione necessaria a' lettori in questa parte del Poema sacro. Servet vestigia, Virg. Aen. II, 711. Vestigia retro observata sequor, ibid. 753.

Dinanzi all' acqua che ritorna eguale.
16 Que' gloriosi che passaro a Colco,

Non s'ammiraron, come voi farete,
Quando Jason vider fatto bifolco.

15. DINANZI: prima che l'acqua abbia avuto il tempo di appianarsi. Tamquam navis, quæ pertransit fluctuantem aquam: cuius, cum præterierit, non est vestigium invenire. Sap. V, 10. Mentre nella lezione di questo verso non occorrono diversità che di ortografia, il Buti pare leggesse: Dinanzi che ritorni all' acqua eguale, cioè, prima che il mio solco ritorni pari all' altra acqua del mare. E il Dan. osserva: «È d' avvertire che si dee leggere: Dinanzi l'acqua che ritorni eguale, come ho letto io in uno antichissimo testo, e sarà il costrutto: Dinanzi, cioè innanzi che l'acqua ritorni eguale.» Non ci è riuscito di scoprire quale si fosse «l'antichissimo testo » veduto dal Dan.

16. QUE' GLORIOSI: gli Argonauti, famosi eroi della mitologia greca che passarono a Colco o Colchide (Koλyic), paese situato sul Ponto Eussino (cfr. Kiepert, Lehrbuch der alten Geographie, Berl. 1878. pag. 87), a rapirne il Vello d' oro. Cfr. Hom. Od. XII, 66. Hesiod. theog. 992. Pind. pyth. 4. Apoll. Rhod. Argon. ed. Merkel, 1854. Apollod. I, 9, 16 e segg. Bocci, Diz. 8. v. ecc. Ovid. Met. VII, 1-158.

17. S' AMMIRARON: cfr. Ovid. Met. VII, 100 e segg. ove si descrive la scena e lo stupore degli Argonauti.

18. JASON: duce degli Argonauti, cfr. Inf. XVIII, 86. Per conquistare il Vello d'oro dovette arare un campo con i due tori spiranti fuoco e domati da lui; cfr. Ovid. loc. cit. BIFOLCO: Contadino che lavora la terra co' buoi. Dal lat. bubulcus; cfr. Diez, Etym. Wörterb. 4a edize. p. 357 (3a edize. II, p. 11).

19-45. Salita nella luna. Tornano all' usato modo. Beatrice guarda nel Sole, Dante in Beatrice. Giungono in un attimo al primo cielo, che «è quello dov'è la luna» (Conv. II, 4.). Inquanto alla velocità del salire, la quale il Poeta paragona a quella dell' ottava sfera, lasciamo che parli l'Ant. (ap. Tom.): «Ritornando sul moto che a lui, fatto puro, aveva impresso l'istinto d' ascendere al cielo, ci dice il Poeta che la sete del deiforme regno, nata con noi e inestinguibile, portavalo con velocità quasi eguale a quella che vediamo avere la opera stellata, che è l'unica visibile. Nel Canto precedente disse che la sua velocità era più della folgore: sarebbe mai, dunque, che nel pensiero del Poeta fosse maggiore di quella del fulmine la velocità della ottava sfera? Si. Al tempo suo non si sapeva che l'elettricità, generatrice di quella meteora, si diffondesse con tanta velocità da percorrere nell' aria qualche diecina di migliaia di miglia in un minuto secondo, cioè in una battuta di polso; e dovevasi pur avere idea che le stelle fossero ad una distanza eccessiva, per non dire immensa: perciocchè non poteva sfuggire a quegli ingegnosi astronomi un fatto semplice ed ovvio, di cui tenne buon conto il Copernico; ed è, che l'orizzonte reale alla superficie terrestre divide in due partí eguali la sfera stellata come si fa dall' orizzonte razionale che passa pel centro della terra, nonostante che questo disti dalla superficie tre o quattro mila miglia. Ora, un tal fatto non potrebbe sussistere se questa distanza, enorme per le nostre misure negli usi civili comuni, non fosse come nulla al paragone della distanza che ci separa dalle stelle; la quale però doveva esser creduta incomparabile e quasi infinita. Supponendola pertanto non più che dieci volte quella di Saturno, il più remoto tra i pianeti allora conosciuti; e supponendo che credessero Saturno tanto più lontano dal sole, quanto più tempo spendeva a compiere la sua orbida col suo moto proprio, giacchè l'astronomia antica non ebbe modo nemmeno di tentare la soluzione del problema delle distanze planetarie, fuorchè del sole e della luna: poichè Tolomeo assegnava circa quattro milioni di miglia alla distanza tra il sole e noi (venti volte minore del giusto), ed oltre a ventinove anni il tempo di una rivoluzione siderale

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