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Non aspettar mio dir più, nè mio cenno:
Libero, dritto e sano è suo arbitrio,

E fallo fora non fare a suo senno:

Perch' io te sopra te corono e mitrio 1.

Dante, attraverso i sette cerchi del Purgatorio, cercando la libertà vera e spirituale della grazia, col risanamento delle sette piaghe, e domata la carne colla prova del fuoco l'aveva ottenuta perfetta e piena, simile a quella de' Beati 2, sicchè per la rettitudine del suo arbitrio, ei potea prender per duce, non più la ragione o Virgilio, ma il suo piacere, che non fallirebbbe che discordasse dalla ragione stessa * e dal bene vero. Ma con tutto che il poeta pellegrino avesse libero, dritto e sano l'arbitrio, egli era pure in via, e dopo gli ammaestramenti della ragione perfetta, gli rimanea a conoscere la verità soprannaturale, simboleggiata in Beatrice, la quale avrebbe finito di liberarlo pienamente anche della mancanza di quelle cognizioni, a cui la ragione umana con tutto il suo acume non può assorgere, fino a fargli fissare per un lampo della divina grazia l'immota pupilla nel Sole Eterno.

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XIII.

Uscito Dante fuor de' sette regni di Catone, l'uomo perfetto secondo la legge naturale e divina, e giunto in vetta al sacro monte, « vago di cercar dentro e dintorno la divina foresta spessa e viva », prende la campagna lento lento << su per lo suol che d'ogni parte oliva », ed entrato nella

1 Purg., XXVII, 139-142.

2 Cf. S. TH. Comm. in IOAN., c. 8, v. 36; II-II, q. 183, a. 4.

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Lo suo piacere omai prendi per duce...
Non aspettar mio dir più nè mio cenno.
Libero diritto e sano è tuo arbitrio.

Purg., XXVII, 131 e segg.

« Et cognoscetis veritatem, et veritas liberabit vos. » IOAN., c. 8, 32.

selva, un rio gli toglie di più andare e al di là del fiumicello gli appare

Una donna soletta, che si gìa

Cantando ed iscegliendo fior da fiore,

Ond'era pinta tutta la sua via 1.

Parimenti, appena arrivato sulla spiaggia del Purgatorio, Dante aveva veduto presso di sè

un veglio solo

Degno di tanta riverenza in vista

Che più non dee a padre alcun figliuolo '.

donna soletta» e il « veglio solo », Matelda e Catone, si rispondono a vicenda, e ci rammentano, nella concezione dantesca, la prima coppia umana nel paradiso terrestre.

Intorno a Matelda molto s'è disputato e si disputa3 chi sia e che simboleggi. Su tal punto diremo più avanti anche noi una parola, ma, a nostro avviso, nel concepimento dantesco del Purgatorio, « la bella donna » che ricorda al pellegrino la storia del primo fallo, e gli descrive il nido dell'umana famiglia; che

Cantando come donna innamorata

Continuò col fin di sue parole:
Beati quorum tecta sunt peccata! 4

non è che la rappresentante di Eva, e di ciò abbiamo testimone il poeta stesso.

Dante nella divina foresta cammina, col fiumicello frammezzo, a paro con Matelda,

Ed ecco un lustro subito trascorse

Da tutte parti per la gran foresta...

Ed una melodia dolce correva

Per l'aere luminoso...

E questa melodia, che seguiva al canto udito poco prima della << donna soletta» che gli stava di fronte, gli fa riprender l'ardimento di altra donna, che, come Matelda,

1 Purg., XXVIII, 37-39. 2 Purg., I, 31-33.

3 Cf. PICCIOLA, Matelda, Bologna, Zanichelli, 1903. 4 Purg., XXIX, 1-3.

Femmina sola, e pur testè formata

Non sofferse di star sotto alcun velo,

Sotto il qual se devota fosse stata

Avrei quelle ineffabili delizie

Sentite prima e più lunga fïata 1.

Dante ascrive la colpa di aver lui tanto tardato a sentir la melodia dell'eccelso giardino ad Eva « femmina sola »><; ep pur egli sapeva che, sebben la prima a peccare, e più gravemente, fosse stata Eva, tutto il male, secondo la dottrina de' teologi dipendeva da Adamo, e « Adamo » sentì il poeta mormorar a tutti presso la pianta dispogliata: perchè, se peccando Eva, Adamo, capo della natura umana, non avesse peccato, la colpa originale non sarebbe passata ne' posteri, e quindi neppur la privazione della giustizia originale co' doni preternaturali conseguenti 2. Ma qui il poeta volea metter a paragone le due donne Eva e Matelda; e quest'ultima faceva per Dante ciò che non fece Eva: lo rimenava cioè nelle ineffabili delizie perdute dalla prima donna; e « Guarda ed ascolta » gli diceva.

A persuadercene vieppiù si osservi come l'Alighieri, che sempre è ricchissimo di perifrasi, designative di persone, sembra povero per Matelda. Nelle molte occasioni che ha di chiamarla per nome, solo una volta, e quasi per caso, la nomina, e, un verso dopo, subito torna alla prima for

1 Purg., XXIX, 22-29. Così esprime pure due volte il medesimo pensiero più avanti, e la colpa dell'esser vota l'alta selva » è pur sempre di Eva: Si passeggiando per alta selva vota, Colpa di quella ch' al serpente crese, Temprava i passi un'angelica nota.

Purg., XXXII, 31-33.

Ne quantunque perdè l'antica madre
Valse alle guance nette di rugiada
Che lagrimando non tornassero adre.
Ivi, XXX, 52-56.

2 Cf. S. TOMMASO, I-II, q. 81, a. 5.

mola; dicendola « la bella donna » . E mentre la chiama << donna » cinque volte 2, ben sei l'appella « bella donna »3 che « donnescamente » parla a Stazio. Sicchè Matelda è « la bella donna » per antonomasia, e così la chiamano i dantisti 5 a una voce. Orbene « la bella donna » del paradiso terrestre richiama la donna « tanto bella» che nella rosa celeste sta a' piedi di Maria; e nella fila delle donne che formano quasi una linea di separazione tra i Beati dell'antico e del nuovo Patto, ad Eva sola è riserbato dal poeta quell'aggettivo per segnalarla sopra tutte, perchè essa è

la bella guancia

Il cui palato a tutto il mondo costa 7.

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A Matelda è dato l'ufficio d'immergere nel Lete il poeta, e dargli a bere dell'Eunoè, com'ella è usa *; ufficio tutto muliebre, e non di comando o di governo, come quel di Catone, sotto la cui balìa si purgano gli spiriti, ma d'obbedienza. In ciò il simbolo storico s'accorda col morale, secondo cui, a nostro avviso, Matelda significa la pratica del libero arbitrio dritto e sano, ossia, l'operazione perfetta secondo virtù. Catone uomo, comanda: Matelda donna, canta,

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2 Purg., XXVIII, 40; XXIX, 14; 61; XXXI, 92; XXXIII, 15.

3 Purg., XXVIII, 63; 148; XXXI, 100; XXXII, 28; XXXIII, 121; 134. 4 Purg., XXXIII, 135.

5 BERTOLDI, La bella donna del Paradiso terrestre, Firenze, 1901.

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raccoglie fiori, purifica e rinnova l'anime ne' due fiumicelli: il libero arbitrio impera; l'altre facoltà obbediscono ed operano.

Ma chi è codesta Matelda ne' fasti della storia? La Matelda dantesca è la donna forte de' Proverbi: mulierem fortem quis inveniet? « Confida in lei il cuore del suo consorte, e non abbisognerà di spoglie; ella gli renderà bene e non male per tutto il corso di sua vita. Cercò lana e lino, ed operò coll'industria delle sue mani.... Si cinse i lombi di fortezza, e rafforzò il suo braccio... Stese la mano a cose forti.!, e l'aperse al derelitto e al povero... Fortezza e decoro sono la sua vesta; aprì la sua bocca alla sapienza, e legge di clemenza fu nella sua parola... Molte donne raccolsero ricchezze; ma essa le superò tutte. Per lei fallace è la grazia e vana è la bellezza: la sua lode sarà l'essere stata donna temente Iddio » 1. Chi non vede in questi tocchi della Scrittura delineato il ritratto della famosa Contessa di Toscana? L'Alighieri, sublimandola nell'eccelso giardino, esaltò in essa la sua patria; nè ci voleva meno di Matilde di Canossa, la più illustre, devota, attiva e battagliera donna del Medio Evo per condurre e accompagnare il fiero esule dell'Arno allo spettacolo della grandezza e del tralignamento del Carro della Chiesa e dirgli fin dal principio: Guarda ed ascolta. La devozione della Contessa alla Chiesa e la sua operosità nel concorrere nell'umiliazione di Arrigo IV, e nel tentare di rappattumarlo e convertirlo a Gregorio VII, pontefice derelitto e povero, pel quale stese la mano a cose forti, e fe' poi dono alla Chiesa di tutti i suoi beni, lungi dall'escluderla dagli ombrosi penetrali della divina foresta, ve la richiamano a più gran voce; e ne' tentativi ch'ella fece a Canossa per l'infelice e perfido imperatore, noi vediamo non lieve analogia di ciò che nel Paradiso terrestre fa con Dante conducendolo a confessare i suoi torti davanti a Beatrice; sempre pronta a deporre nell'obblio ogni colpa, ed a ravvivar

1 Prov. XXXI, v. 10-31.

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