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che li trasse al male. Ecco perchè Catone è « un veglio solo » e Matelda « una donna soletta ».

Se mal non ci apponiamo, questa ragione ha una conferma nella Commedia stessa, là dove è ricordo del reciproco amore di Catone e di Marzia, e, a commuover l'austero custode de' sette regni, Virgilio gli dice ch'egli è del cerchio di Marzia sua, che in vista ancor lo prega che per sua la tenga, e soggiugne:

Per lo suo amore adunque a noi ti piega 1.

Catone però, come bene commenta il Casini, « senza rinnegare i dolci vincoli d'affetto che già l'aveano legato alla sua donna, vuol pure dimostrarsi indifferente alle lusinghe di lei, perchè il suo ufficio presente non gli permette d'ascoltare altre voci fuori di quelle che vengono dal cielo » 2. Il perchè confessa che, mentre egli fu in vita, alla sua donna, per piacerle, avea fatto quante grazie ella volle, accondiscendendo, come narra Lucano, fino a' suoi capricci, ma oggimai più non lo può muovere, perch'essa « di là dal mal fiume dimora », e lui è in istato di salvezza. Solo una creatura dell'Empireo che non lusinga, lo può piegare; però risponde al Mantovano:

Ma se Donna del ciel ti muove e regge,
Come tu di', non c'è mestier lusinghe :
Bastiti ben che per lei mi richegge 3.

Catone dunque, l'uomo perfetto in ogni virtù, cede a donna, ma ad una donna celeste, a Beatrice, scesa di cielo a muover Virgilio per invito della Gran Donna profetata nell'Eden; non a Marzia, e neppur a Matelda, se qualcosa valesse presso di lui il nome della donna ora custode del Paradiso terrestre, e pari a lui, se non per autorità di governo, per somiglianza di ministero. Ambedue vivono nel

Purg. I, 78-81.

2 Commento alla D. C. Purg. 1. c. Firenze, Sansoni, 1903, p. 276. 3 Purg. I, 91-93.

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l'isola, ma l'uno è quasi estraneo all'altra, e se si amano, s'amano di un amore che non è terreno. Come Catone si piega all'intercessione di Donna del cielo, così Matelda va meditando il salmo Delectasti, e mentre coglie non i frutti dell'albero proibito, ma i fiori d'ogni virtù, ond'è pinto tutto il sentiero di sua vita operosa, a' raggi d'amore divino si va scaldando,

s'io vo credere a sembianti

Che soglion esser testimon del core 1.

Ma quanto è più acceso d'amore il viso di Matelda di fronte a quel di Catone, altrettanto più sicuri e scultorii sono i lineamenti e le fattezze storiche di questo rimpetto a quella.

VII.

Chi sia Catone, niun dubbio; chi invece Matelda, somma incertezza, al dir d'alcuni.

2

Per noi « la bella donna » è la famosa contessa di Canossa; ma pel D'Ovidio « certissimamente non è » quella 2, sibbene la monaca benedettina Matilde di Hackeborn, di cui sopra s'è ragionato. È una candidatura difesa pure da altri valorosi paladini; e con bell'armeggiare. Noi non vogliamo entrar nel mezzo della lizza, ma faremo solo qualche osservazione agli argomenti onde il D'Ovidio pugna per escludere la contessa di Toscana dal Paradiso terrestre, e aprirne invece i penetrali alla monaca d'oltralpe.

Al dotto critico par cosa strana che Dante ringiovanisse la vecchia Matilde. Ma non adoperò il poeta nello stesso modo con Maria Vergine, con Eva, che pur morirono in buona età? Per la contessa poi potè egli aver l'occhio a ritratti di lei, quali si fossero 3, alla fama della donna bat

1 Purg XXVIII, 43-45.

3

Studii sulla D. C., Milano-Palermo, Sandron, 1901, pag. 373 e segg. Il Purgatorio e il suo preludio, pag. 572 e segg.

3 II PICCIOLA riporta due ritratti della Contessa Matilde, l'uno forse più recente dell'altro, in cui essa è rappresentata giovane (Matelda, Bologna, Zanichelli, 1903, in principio).

tagliera, che non mai apparve sì grande e potente e una precorritrice di Giovanna d'Arco, quanto nel fiore della sua giovinezza; e la fama, si sa, qual nasce, generalmente resta. Nè il rappresentar una donna stata altera e bellicosa in sì dolce aspetto qual è quel di Matelda, è inconsueto all'arte di Dante, il quale, secondo il bisogno, trasforma gli atti de' suoi personaggi, e in quel medesimo eccelso giardino fa della sua dolcissima Beatrice una donna « regalmente nell'atto proterva». Così paragona Matelda a << vergine che gli occhi onesti avvalli », ma non la dice vergine, come neppur mai Beatrice, e pur questa supera quella in bellezza e altezza simbolica; cosicchè, come le nozze dell'una non ostano al concetto dantesco, così nemmeno debbono quelle dell'altra escluderla dal Paradiso terrestre. Del rimanente Matilde di Canossa stata sposa, meglio simboleggia Eva che non la monaca di Hackeborn. Che se Matelda non ha alcun de' lineamenti storici fuori del nome, il D'Ovidio sa meglio di noi quanto ne difettino anco altri personaggi della Commedia, storicissimi se altri mai, i quali dan pure a' dantisti tanto filo a torcere per accertarli. E, dato il simbolismo di Matelda, potè benissimo Dante, senza rinnegare i suoi principii imperialisti, glorificare la contessa a quel modo che glorificò Costantino, ponendolo tra i sommi nel ciel di Giove1. « La grande fautrice di ambizioni papali a lui odiosissime », « quel nuovo Costantino in gonnella», come la chiama il D'Ovidio, potea agli occhi del poeta irradiarsi della luce dell'« intenzion sana e benigna » con cui operò, nello stesso modo ch'egli vede il vecchio Costantino in clamide imperatoria, il quale

Sotto buona intenzion che fe' mal frutto
Per cedere al Pastor si fece greco 2.

Come Costantino è muto in cielo alla vista de'mali di cui fu « matre » la sua donazione, così Matelda allo spettacolo

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delle simboliche vicende del carro della chiesa. Basta la voce celeste:

O navicella mia, com' mal se' carca!

Una donna non dee por lingua nelle cose della Chiesa, e << la bella donna » imita Beatrice che a tanto strazio assiste tacita, sebben dolorosa e pia, e non apre bocca che contro la volpe dell'eresia, sua speciale nemica.

Certo, alla candidatura della Contessa di Canossa più che la parsimonia del pennello dantesco nocque l'omonimia, che suonò agli orecchi de' moderni, con altre venerande matrone, onor delle corti e dei chiostri medievali. Ma di fronte a lei, non ostante i suoi ardenti e dotti difensori, scompare Matilde di Hackeborn, di cui sol resta « l'autrice d'immaginazioni non dissimili dalle dantesche ed il nome di lei... quasi tutto il resto n'è volato via » 1. Nè ad esaltar la debole figura della monaca tedesca è buon partito quello usato dal D'Ovidio, d'abbassare a lei la Matelda del Paradiso terrestre, perchè combaci; col farne « qualcosa di scolorito, di non caratteristico... l'ideale femminile, nel senso della bellezza ingenua e della bontà mite, ma in un modo che rimane generico, non diventa individuale ». No, Matelda non è qualcosa di scialbo e d'indefinito; non ha dell'angelo, ma della donna; è sì l'ideale femminile della bellezza e della bontà, perchè rappresenta la prima « bella donna » rinnovellata dalla redenzione, ma non ha quella mitezza ingenua che offuschi il suo carattere di operosa, sollecita, prudente e coraggiosa custode dell' Eden. È una creatura gentile, ma insieme una delle cose maggiori che Dante sapesse fare. Matelda s'appaia con Catone, come la donna coll'uomo; e di tanto si solleva e discioglie nell'aer vivo. la sua bellezza simbolica e cortese di quanto l'Uticense discende al pie' della montagna, e si riveste di austerità

1 D'OVIDIO, Op. c. pag. 591.

virile e di riverenza dignitosa e paterna 1. Matilde di Hackeborn sta bene nel silenzio contemplativo del chiostro; Matilde di Canossa sta meglio in vetta al monte dell'espiazione: a quella piacque l'ombra mite della cella; a questa il campo aperto e la vista delle battaglie.

VIII.

E di battaglie incruente con trionfi, vittorie e sconfitte è campo meraviglioso il Paradiso terrestre. Quanta luce quinci piova sopra tutti i tre regni danteschi e quali lampi di verità morali, teologiche e storiche si sprigionino dalla successione e dall'intreccio de' simboli, sempre appropriatissimi al pensiero che li anima, li stringe fra loro e li sublima nel punto più culminante della visione dantesca, il D'Ovidio, che col suo occhio d'acuto e finissimo critico sarebbe potuto penetrar sì a fondo, non volle o credette bene di non vedere o cercare. Nelle poche pagine, troppo poche, che vi dedica, son condensate le chiose ai più bei canti del Purgatorio, alla breve, di volo, e, come chi s'affretta e rimanda ad altri. Ci si sente la lena affannata e la stanca mano del brioso scrittore, giunto al termine di lunga opera, ove è pur lecito sonnecchiare un poco. L'impressione che in noi desta è d'un dotto pellegrino il quale sia ito studiando ed esaminando un paese, e capitato verso il tramonto del sole, dopo la corsa di tutto il dì, a piè d'un colle, ameno sì e degnissimo del suo sguardo, ma un po' erto, si sente la possa delle gambe posta in forse e si contenta di farvi una passeggiatina alle radici, e dar un paio di sbirciate all'in su.

1

Vidi presso di me un veglio solo

Degno di tanta riverenza in vista,

Che più non dee a padre alcun figliuolo.
Purg. I, 31-33.

2 Op. c. pag. 593-602.

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