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mile, e a Giovanni da Sessa, tutti e tre formanti quasi una specie di triunvirato; ma l'autorità del Mormile preponderava. Furono scritti soldati; ma la difficoltà non era nello scriver soldati, ma nel pagarli. Bisognò cavar danari dalle mani di gentili uomini cittadini, e mercatanti, e in certo modo taglieggiarli. Tra'nobili, quelli che la causa pubblica caldeggiavano, furono Placido e Niccolò di Sangro, fratelli, Antonio Grisone, Diomede e Ferrante Caraffa, Giulio del Dolce e Giovanni Antonio Cossa, del sedile di Nido. Del sedile capuano, Pasquale e Fabio Caracciolo, fratelli del priore di Bari, Pirro Loffredo Fabio Caracciolo di Tocco, Annibale Bozzuto e Luigi Dentice. Del sedile di Montagna non vi fu alcuno il quale fosse del popolo: ma tutti furono pel vicerè, molto in ciò valendosi il vicerè di Paolo Poderico, di Aurelio Pignone, di Francesco Rocco. Del sedile di Porto vi fu dell' una parte e dell' altra: per la città Luigi ed Antonio Macedonio, Marc' Antonio Pagano, Giacomo Buzzo d' Alessandro ed altri. Di quello di Portanova, Ottaviano Mormile, fratello di Cesare, Astiagio Agnese, Pietro Moccia ed altri. Questi gentili uomini attesamente curavano, oltre non si passassero i termini della obbedienza al sovrano, massimamente perchè avevano saputo che il vicerè, all' udire la conclusione della consulta, s'era lasciato uscir di bocca questa parola: che gli avvocati e dottori della città mentivano per la gola a dire che non v'era ribellione, dove tutto era ribellione, e più che ribellione, se vi poteva essere qualche cosa di

peggio; e che in breve, avuti in mano quest'insolen ti legulei, li avrebbe fatti trascinare e squartare per le piazze di Napoli (1). Ma nondimeno, quantunque tra l'una parte e l'altra fossero accesi sdegni, non avendo il popolo invocato altro nome che quello dell'imperatore, e non essendo in questi moti mescolato alcun potentato straniero, si sarebbe potuto sperare di venirne a composizione, sol che il governo avesse receduto dalla idea di adoperare straordinarii rimedii per conto dell'eresia, e cessato d'ingerirsi negli affari spirituali, che bisognava lasciare interamente amministrare a chi spettava. Per verità quel voler metter le mani da per tutto e tutto regolare a suo modo era incomportabile. Mala pruova ne avea fatta l'imperatore con l' Interim, da lui pubblicato in Germania, con cui avea creduto forse di potere accordare insieme protestanti e cattolici, e con cui non avea contentato nè cattolici, nè protestanti (2). Avea fatto venire il vicerè breve da Roma (lasciamo il come), ma che significava quel modo tacito e misterioso di pubblicarlo? Che significava quella esibizione al vicario d' un ministro regio ad aiuto? Non era questo un evidentemente intraprendere sullo spirituale? Non dava egli con ciò a divedere che, secondo avea predetto il cardinal Teatino, col tempo avrebbe creato giudici ed ufficiali del Sant'Ufficio i secolari (3)? Così

(1) Il Summonte, e il Castaldi ecc.

(2) Botta, Storia d'Italia in continuazione di quella del Guicciardini, lib. VII.

(3) « Al cardinale Teatino non piaceva di porre l'Inquisizione in Napoli al modo che s'usa in Ispagua, cioè che i regi (officia

la discorrevano alcuni che non pendevano nè pel popolo, nè pel vicerè: uomini di mezzana via e partito, i quali volentieri si sarebbero posti per lo mezzo ed accordato popolo e vicerè. Non tace la storia i nomi di questi pietosi. Furono fra gli altri: Michele Caracciolo, vescovo di Catania, gentile uomo di assai pregiate virtù, e frate Ottaviano Preconio, vescovo di Monopoli, buono orator sacro di que'tempi, e dotato di molta prudenza e bontà. Se fossero stati uditi, avrebbero risparmiato alla patria loro molte sciagure; ma era destinato che, pari all'antica Cassandra, non dovessero essere creduti, non che dal vicerè, nè pure dagli stessi loro concittadini. Imperciocchè questi moti popolari, quando non sono stati potuti antivenire, di necessità debbono compiere il naturale lor corso, sino a che, o una forza maggiore estrania non li opprima, o non si venga in certo modo ad estinguere l'ardore che li animava. Ma credere di sedarli sul bel principio della lor vita è vana speranza; chè non și possono certe cose, quando sono sullo sdrucciolo, ritenere. Furono questi moti, che con troppo forse paziente studio ed amore vo descrivendo, pel fine loro lodevoli, incerti per li mezzi che adoperarono; chè separarsi dal loro glorioso sovrano i Napoletani di quell' età, palesemente almeno, non osarono, e ben

li) confiscassero i beni degl' inquisiti, come s'usa, e con dare (così) quel tribunale in qualche modo più tosto soggetto al re che al papa Nè era per consigliar mai che i giudici ed ufficiali del Santo Ufficio fossero secolari, come pur far voleva don Pietro di Toledo ».

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Caracciolo, vita manoscritta di Paolo IV cap. VI.

vedevano e chiaramente conoscevano che, lasciati a sè soli, non avrebbero potuto a lungo competere colla forza colossale d'un Carlo V. Ma ciò che ebbero questi fatti di comune con altri consimili avvenimenti, e ciò ch'ebbero di proprio, dalle cose dette e dalle cose che appresso dirò, sarà manifesto.

FINE DEL QUARTO LIBRO.

LIBRO QUINTO

ARGOMENTO

La Città manda suoi ambasciatori a Carlo V in Germania, il vicerè invano riluttante. Caso miserabile di tre giovani nobili, dal vicerè fatti decapitare. Cavalcata del vicerè. Sdegno represso del popolo. Cerimonia augusta nel duomo dell'unione giurata tra popolo e nobiltà. Se ne roga atto pubblico per mano di notaio. Tregua tra Napoletani e Spagnuoli, e come fosse osservata.

Di rado gli uomini, saliti in grande onoranza e potere, in quello, sempre virtuosamente operando, si mantengono: tanto sono facili le dilettazioni del dominare, e l'agiatezza e la morbidezza del vivere così presto ingenera la corruzione negli animi loro, che spesso si vede alle più gravi cure concedersi il minor tempo possibile nella vita de'grandi, le quali pure dovrebbero il più del lor tempo tener occupato. Spesso incontra altresì, in quelli che con sommo studio cominciarono ad esercitare il loro governo, che a lungo andare impigriscono ed assonnano nell'alto lor seggio, con una certa noia e fastidio dei negozii pubblici, di che non vi può essere peggior male pe'miseri governati. Don Pietro di Toledo, vicerè di Napoli, dal dì che fu liberato dalla paura delle armi turchesche di Solimano, non mostrò più tanta operosità nelle cose pubbliche, quanta prima ne aveva mostrata; anzi andò ella di grado in grado

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