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ferenza di Francesco I di Francia, che anch'esso ambiva la stessa imperial dignità, ch'era la bella, secondo galantemente diceva Francesco, da' due re contrastata. Per l'avvenimento di Carlo, re di Napoli, all'impero, dovè Leone X, pontefice massimo, volere o non volere, dispensare a una molto saggia costituzione, fondata sopra una bolla di Clemente IV, data fuori a'tempi di un altro Carlo, del primo Carlo d'Angiò; la quale, intesa a mantenere l'equilibrio tra'vari stati, onde il sistema politico dell'Europa di allora si componeva, vietava a're di Napoli d'essere altresì imperatori. Mostrò il fatto quanto fosse saggia quella constituzione. Imperocchè, rotto il divieto, si vide Carlo manifestamente aspirare alla monarchia universale. Seguì l'incoronamento di lui ad imperatore eletto di Germania e re de'Romani (così intitolossi) in Aquisgrana l'anno 1520, il 24 di febbraio, suo di natalizio: il che fu tenuto per ottimo augurio da' cortigiani. In quello stesso dì Solimano, figliuolo di Selim, veniva salutato imperatore de'Turchi. Un nuovo triumvirato si vide allora seder arbitro delle sorti d'Europa e del mondo: Carlo d' Austria, Francesco di Francia e Solimano.

Ma discendendo da queste superbe altezze di regno alla storia dell'umile Italia, Napoli per mostrare il suo giubilo in questa occorrenza, fece donativo a Cesare (così chiamavano l' imperatore) di ducati 300 mila. Giunse molto opportuno in corte l'oro napoletano, poco prima che la cerimonia dell'incoronamento seguisse.

Tutto ciò che i re delirano affligge i miseri popoli. Le emulazioni e contese de' tre nominati monarchi sconvolsero il mondo. Segnatamente per le ambizioni di Carlo e di Francesco fu l'Italia nostra lacerata e guasta, la quale ancora grida sangue contro di essi ne' giudizii di Dio. La veneranda Roma, già sedia dell'impero a cui dava il nome, sedia principale della religione di Cristo, Napoli delizia dell'universo, Firenze, ospizio delle lettere e delle arti gentili, l'una appresso dell' altra, queste città ebbero a sofferir e quanto da'barbari, e neppur da'barbari avevano unqua sofferto. Tradimenti, saccheggi, rapine, stragi, pestilenze e fami empiono le carte di questo miserando periodo di storia. Ribelli sudditi stringer la spada contro la patria e 'l sovrano; un re, prima prigione, poi spergiuro; un papa oltraggiato e deriso, bugiarda religione d'imperatore; un'antica repubblica spenta. Tremende cose a dire son queste; e il dirle è forza a chi non vuole le leggi imposte agli storici trapassare.

I quali fierissimi casi, mentre i cieli apparecchiano a danno della sempre e troppo misera Italia, non furono per verità lenti gli Spagnuoli a provvedere il regno d'opportune difese; ma non so se poi Napoli avesse maggiormente a dolersi degl'inimici o de'proprii suoi difensori. «Nell'assedio di Napoli (scrive il Parrini, quantunque autore dimesso, uso anzi sempre a colmar di lodi chi comandava), questa nobil città sofferse, oltre agl' incomodi della fame che le cagionava il nemico, le insolenze intollerabili dell'e

sercito imperiale, che avvezzo alla libertà poco dianzi goduta a spese della misera Roma, mentre la difendea (cioè mentre difendeva Napoli), sommamente l'angustiava » — Basta che quello stesso esercito nel 1528 ci difendea, che capitanato dal contestabile di Borbone, ribelle di Francia, aveva posto a sacco Roma poco innanzi.

Ma le cose che sinora la pietà e lo sdegno confusamente ha dettato, ragion vuole che, senz'ira nè amore di sorta, io esponga ordinatamente.

Il re Francesco I minacciava Milano. Il vicerè La Noia, nella state dell'anno 1523, andando di Napoli a Roma, soffermatosi in Capua, cercò quella chiave del regno afforzare con nuove fortificazioni esteriori di difesa, di cui gittò egli medesimo la prima pietra. Pubblicatasi di poi la lega di papa, imperatore, re d'Inghilterra e principi italiani contra Francia, ed adunatosi l'esercito de'collegati in Lombardia, al vicerè di Napoli fu dato capitanarlo. Ma re Francesco sempre col pensiero a Milano, fatta massa delle sue genti, prese la via, troppo nota a' Francesi, della volta di Italia. Seguivanlo i suoi baroni, meno uno, Carlo il contestabile di Borbone, che pessimamente soddisfatto per alcune castella, state aggiudicate dal re a Madama madre, Luisa di Savoia, s'era volto a Cesare contro alla propria patria e al suo re. Un fiero fato attendeva Francesco I a Pavia, dove ful combattuta quella memorabil giornata, che rotta di Pavia è nominata nelle istorie. Il re combattendo animosamente, fu circondato da una schiera di ca

valieri che al Borbone obbedivano. Giunta l' ora fatale dello arrendersi, fremendo al nome solo del ribelle, nelle mani del quale per uno de' suoi strani giochi lo avea messo fortuna, chiese del vicerè di Napoli, quasi nel campo nemico non vedesse altro uomo degno di riceverlo prigione, al marchese di Pescara Davalo, altro de'capitani di Cesare, consegnando la spada: come se fosse privilegio di chi a nome di re straniero reggeva le nostre sorti, di dovere in ogni emergenza stare a paro co'principi!

Doveva il re di Francia esser condotto nel Castel nuovo di Napoli, dove gli erano stati già preparati gli appartamenti, quando tutto ad un tratto con meraviglia d'ognuno s'intese che il vicerè lo aveva condotto in Ispagna. Di che corsero sdegni tra La Noia vicerè el marchese di Pescara Davalo. Si lamentava quest'ultimo, e con lui gli altri capitani imperiali si lamentavano, che, senza loro saputa, si fosse il vicerè arbitrato a menar Francesco in Ispagna; quasi così nobil vittoria del loro signore non ad altri che al solo vicerè di Napoli fosse dovuta. In questi mali umori venne il Pescara tentato da Girolamo Morone, segretario del duca di Milano, con la offerta che papa Clemente VII volentieri avrebbe ad esso Pescara dato la investitura del regno, ove si fosse fatto re di Napoli. Il Pescara, mentre da un lato porse orecchio al trattato, dail' altro tenne di tutto informato l'imperatore.

Crescevano intanto tra l'imperatore e 'l pontefice le male contentezze. La sterminata grandezza di Ce

sare troppo spaventava il pontefice, il quale non tardò a scoprirglisi avverso, di che poi gli vennero quelle calamità, delle quali ebbe tanto fieramente a dolersi. Nell'anno 1526 Lodovico di Lorena, conte di Valdimonte, il più prossimo al sangue della casa di Angiò, disceso da quel Renato, ultimo scacciato re di quella casa, giovine di bello aspetto e di regali costumi da principe, chiamato dal pontefice, tentò la conquista del regno. Venne sopra potente armata. Prese Gaeta, Salerno, Sorrento, Castello a mare di Stabia, Torre del Greco; insino alle porte di Napoli giunse il terror del suo nome: tanto che i cittadini chiusero con fretta la porta del Mercato, e s'apparecchiarono alla difesa. Maggiori progressi avrebbe fatti, ove il vicerè non se gli fosse opposto; il quale già era prestamente accorso di Spagna ( dov'era ito per la faccenda del re prigioniero) con potente naviglio, sopra cni passarono il mare sedici centinaia di fanti. Il Valdimonte si ristette dalle offese per lo men reo partito; e gli Spagnuoli, fatto senno dell' accaduto, con molta più diligenza si dierono a munire di buone artiglierie le piazze del regno, specialmente quelle che guardano dal lato dell'Adriatico, che alla custodia di Giovan Battista Pignatelli, vicerè delle province d'Otranto e Bari, affidarono.

Re Francesco fra tanto, dimorato alcuni mesi sotto buona custodia in Ispagna, calò finalmente a' patti, che libero poi nel suo regno non volle attenere. II perchè non solo minacciò di nuovo Milano, ma spedì ancora Lotrecco, famoso suo capitano, alla ricuperazione (così pubblicò) del suo reame di Napoli.

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