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tadini per quella malaugurata instituzione, da loro non voluta ricevere, cento anni dopo tutta era spenta. Nuovi uomini e nuove opinioni reggevano il mondo. Nondimeno entrambi questi fatti mostrano, se pure non vado errato, una somma impazienza del dominio straniero. Onde si pare come mala cosa è a' popoli il non avere un proprio nazionale governo (antica sentenza che torna in ogni tempo opportuno ripetere); chè non è forse per essi peggiore calamità. Onde si pare ancora di quanto noi napoletani dobbiamo essere grati all'avvenimento di quel principe, che ammendando due secoli di viceregnato, restituiva a queste contrade, una con la indipendenza, l'antico splendore.

Nè creda alcuno che quel movimento, che ora mi apparecchio a descrivere, fosse al tutto opera incomposta di plebe inconsulta; il quale vuolsi tenere piuttosto come splendido esempio di civile moderazione. Perocchè non al principe, quantunque lontano e impedito in cure di guerra in Alemagna, s'opposero i nostri maggiori; sì s'opposero ad una spietata voglia d'un suo superbo ministro. Nè quantunque in materia di fede non volessero riconoscere altra giurisdizione che quella dell'Ordinario, per questo la fama, tanto celebrata nel mondo, della pietà del popolo napoletano fu menomata. Laonde se, come alcuni estimano, i Napoletani per la vivacità e sottilità dell'ingegno sono greci, sono anche pel loro senno latini felici elementi, che in loro si contemperano senza distruggersi.

Ma avanti che io discenda a'particolari di un fatto de'più nuovi e stupendi che la nostra storia ricordi, e più degli altri per avventura valevole a mantenere certa speciale indole del popolo napoletano, non sarà superfluo, m'immagino, riferire altri fatti alquanto anteriori, che con quello si legano che forma il principal subbietto della presente narrazione, la quale abbraccia le cose seguite nella città dal cominciare del sestodecimo secolo all'anno 1547.

Gravi avvenimenti politici insino dal principio illustravano appresso di noi il secolo XVI. Federico, ultimo degli aragonesi re di Napoli, discendenti da Alfonso il Magnanimo, principe per sè degno di fortuna migliore, sopraffatto dalle forze de'due più potenti re di Europa, di Luigi XII di Francia e di Ferdinando il Cattolico di Spagna, il secondo de' quali alla forza aggiunse ancora l'inganno, uniti solo in danno di lui, ma che ben presto poi tornarono all'antica loro nimistà, con forte e risoluto consiglio, senza volere neppure tentare l'estremo cimento delle armi, il dì 6 di settembre dell'anno 1501, movendo da Ischia isola, cedeva di queto dall'avito seggio e dal regno. Con l' andarsene egli volontario esule e prigione in Francia, aprivasi la lunga serie de'vicerè o luogotenenti regii, che in nome di re straniero per lungo tempo tennero queste belle napoletane contrade. Primo vicerè di Napoli degli Spagnuoli chiamano Ernandez Consalvo da Cordova, gran capitano, quel medesimo, che scacciati i Francesi, ebbe poi assicurato al suo re Ferdinando il Cattolico l'intero

possesso del regno. Or parea che a questo Consalvo, già chiaro per senno e militare virtù, non altro di re mancasse che il nome, e certa material pompa regia. Fomentando l'umore de'baroni, e la mobilità naturale a' popoli, poteva di leggieri tentar novità nello stato. Erano con un re lontano e nuovo le occasioni propizie, l'animo non alieno del Consalvo. Questi altro non erano che sospetti; ma in conferma di questi sospetti fatti s' aggiungevano, i quali nell'animo del re in certezza conversero il dubbio della vacillante fede del gran Capitano. Richiamato in Ispagna, sotto vani pretesti nicchiava. Si risolve il re a venire di presente in Napoli a togliergli di mano il governo del regno. Nè lo rimossero dal suo proponimento la certa novella, che gli sopravvenne per via: essere morto l'arciduca Filippo, suo genero (il quale lasciava di sè due soli figliuoli maschi, Carlo e Ferdinando, inetti allora per l'età loro tenera, ma poi destinati da'cieli a dovere ascendere a tanta grandezza d'imperio); lui richiamar di nuovo i popoli di Castiglia, contenti del suo moderato governare; lui la figliuola Giovanna, caduta in una fiera malinconia per la morte del suo troppo amato marito, sè inabile confessando all'amministrazione di tanto dominio. Ma quella gravità ibera di Ferdinando, non lasciandosi da siffatta novità punto piegare nè volgere, continuato il suo viaggio, dopo essersi imbarcato in Barcellona a 4 di settembre dell'anno 1506, a Napoli il 19 del seguente mese pervenne. Dove, non gli bastando di essersi di persona mosso per togliere a

Consalvo il governo del regno di mano, nel partir ch'ei fece il dì 4 di giugno del 1507, volle che con lui s'accompagnasse, e quasi fosse partecipe degli alti onori sovrani che i re da'loro popoli riscuotono in tali dipartenze solenni; dando esempio al mondo di profonda dissimulazione. Perciocchè, ritornato Consalvo in Ispagna, non ebbe più modo di uscire da quei reami, nè gli fu data più facoltà d'esercitare la virtù sua in guerra, nè in opere memorande di pace. Onde è fama che sullo stremo del vivere fra le altre cose si pentisse ancora di questa (chè tali sonò i pentimenti de'grandi ambiziosi!), del non aver saputo bene usare la benevolenza de'nobili e del popolo napoletano, che lo esortavano a farsi re d'un regno, del quale con la spada e col senno avea fatto al suo signore tanto memorabile acquisto.

Ferdinando il Cattolico soli sette mesi in Napoli dimorò, ed alla piazza o sedile del popolo mostrossi largo de'suoi favori, equiparandolo a'sedili de'nobili in alcune cose spettanti a comune e pubblica utilità. Conciossiachè, come è noto, era la città nostra divisa in sedili, e ciascun de' sedili sceglieva un eletto a rappresentarla; i sedili de'nobili essendo cinque, di Nido, Capuana, Porto, Portanova e Montagna, che prima erano sei, onde in alcune occorrenze pubbliche sei eletti sceglievano, il sedil di Montagna rappresentando anche quel di Forcella (1); e uno eletto il popolo pel suo sedile, senza più;

(1) Castaldi Storia di Napoli dal 1502 al 1571. (M. S. Volpicella) f. 22.

ognuno vede quanto la condizion d'esso popolo fusse inferiore ai nobili nel dar voto nelle faccende pubbliche del comune. Non ebbero mai effetto queste regie promesse. Pure il popolo fu grato al suo re che lo avesse nelle voci a'nobili equiparato, se non nel fatto nel dritto; con che i semi si spargevano di quelle rivolture, che io mi trovo di avere in altro luogo descritte.

Fu fatto al re, nel tempo di sua dimora in Napoli, il donativo di ducati 300 mila. Poco di poi nel 1508, essendosi dal re conchiusa pace con Ludovico di Francia, patto espressò di detta pace fu che il re dovesse mantenere al re francese del suo, oltre a'fanti, 500 uomini d'arme; però fu imposto nel regno un carlino a fuoco, cioè per ogni casa, per lo spazio di sette anni. Donativi nel linguaggio di stato di quell' età addimandavansi (quasi potesse il nome coonestare la cosa) le tasse straordinarie, oltre agli ordinari pesi che si pagavano.

Secondo vicerè di Napoli fu il conte di Ripacorsa. A costui il re commetteva partendo bene ed attentamente vegliasse, che i signori veneziani non si distendessero maggiormente nel regno. Imperciocchè è da sapere che sino da quando Ferdinando II d' Aragona, nel 1496, richiese d'aiuto la Signoria di Venezia pel riacquisto del regno, venuto in mano de i Francesi, Trani, Monopoli, Polignano, Brindisi ed Otranto furon date in pegno a'Veneziani. I quali s'obbligarono restituir quelle terre ogni volta che fossero stati soddisfatti della somma di ducati 200 mila,

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