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tenere la forza spagnuola. Chiamati a sè i colonnellie i sopracomiti, parlò loro, come dicono, in que

sta sentenza:

<< Voi vedete, compagni e fratelli carissimi, che l'ora della pugna si appressa. Io non istarò a voi, Genovesi, a ricordare le antiche glorie della patria nostra, nè l' Africa corsa, nè i Pisani alla Meloria domiti, nè la Corsica e la Sardegna sottoposte, nè il regno di Cipro soggiogato, nè vinti e scacciati gl' imperatori di Costantinopoli, nè i Veneziani a Chiozza umiliati, nè l' Asia spettatrice di tante imprese da noi fatte in danno di Turchi e di Saracini. Solo dirò che ora con noi combatteranno quelli Spagnuoli, generati da quegli altri, che i padri ed avoli nostri sconfissero nelle acque di Gaeta, facendo il re Alfonso prigione. Nè vi spaventi il numero delle navi. Chè voi ben sapete che non nel numero, ma nella qualità de'legni l'importanza consiste delle navali fazioni. Con qual disciplina e ordine poi costoro vengono ad assalirci, argomentatelo da questo, che sulla cima degli alberi delle galee loro non hanno gabbioni. A che io vi ritardo con molte parole? combattete virilmente, come se fosse presente il generale vostro Andrea Doria, il cui solo nome basta a mettere nell' animo de' vostri nemici sgomento, più virilmente ancora di quel che fareste, ov'egli qui si trovasse presente; imperocchè egli, da voi lontano, attende che gli conserviate l'onore ».

Dalla banda degli Spagnuoli intanto era surta una controversia innanzi alla spedizione per chi dovesse

averne il comando. Il vicerè sosteneva a sè appartenere, però che oltre che, come vicerè, era egli comandante supremo di tutte le forze di terra e di mare, aveva lo special carico di grande ammiraglio del regno, a cui il pensiero e 'l comando di queste cose si apparteneva. Sosteneva l'Orange, come generale dell' esercito, a lui si spettasse. Ma la gara che già era fra loro due, e che era già stata non poco pregiudizievole al servigio di Cesare per le cose di terra, non fu per verità d'alcun nocumento per quelle del mare. Chè non solamente que'due cessero di buon grado il comando a Gobbo Giustiniani, uomo assai sperimentato in queste faccende, ma non contento a ciò, il vicerè volle combattere come semplice soldato in questa fazione, dando esempio di civile modestia.

Gli Spagnuoli, lasciato a mano sinistra il promontorio di Minerva, aveano mandato alquanto più innanzi due galee con commissione che accostatesi al nemico simulassero poi di fuggire per trarlo in alto mare a combattere. Ma Filippino aveva per esploratori fidati il dì innanzi saputo il loro disegno; e però con celerità incredibile aveva ricercato da Lotrecco l'aiuto di 400 fanti, che, capitanati da Buttiero Croci di Guascogna, aveva rimbarcati in Vietri, poco prima se gli scoprisse innanzi l' armata nemica. Capitano nelle guerre navali espertissimo, fe'sotto specie di fuga allargare tre delle sue galee, le quali poi girando con prospero vento dovessero da lato e da poppa investire il nemico. Egli poi con cinque galee

gli andò incontro. Dovevano gl'imperiali scaricare le artiglierie per togliere col fumo agli avversarî la mira; ma questa operazione, notano gli storici, fu fatta con lentezza spagnuola. I quali storici, notano altresì che i Genovesi, ne'maneggi nautici, diversi modi avevano degli Spagnuoli, e che la differenza era tutta in vantaggio de' primi. Ebbe il Doria la comodità di tirar di mira; ed ecco, dato fuoco a un grandissimo basilisco della sua galea, con quel colpo percuotere la capitana nemica, nella quale era don Ugo. Caddero 40 uomini ammazzati, fra quali il capitano della stessa galea. Le artiglierie dall'altra parte scaricate dalla galea del Moncada ammazzarono in quella di Filippino il capitano, ferirono il padrone; e approssimatesi l'una all' altra, facevano gli Spagnuoli con gli archibugi ed altre armi un aspro assalto. Se non che i Genovesi, usi a queste battaglie di mare, combattevano chinati e cauti e tra gl'intervalli de'palvesi, e sapevano come schivare il pericolo. Così mentre che con grande spavento ed impeto tra le due galee si combattea, tre altre imperiali eran venute alle prese con due altre di Genova, e riuscivano superiori; quando le tre che, come sopra sì disse, per comandamento del Doria aveano simulato la fuga, ecco rivenir d'un tratto, e da lato percuotere la capitana nemica, alla quale quella delle Genovesi, che chiamavano la Nettuna, svelse un albero e cagionava gran danno. Orrore e sangue e disperate grida per tutto, giunto allo spesso folgorare e tuonare de'bronzi metteva spavento nell'animo anche de'più gagliar

di. Don Ugo intrepido al suo posto, già in un braccio ferito, e nondimeno immobile, inanima i suoi, e da'fuochi e da' sassi lanciatigli su dagli alberi delle nemiche navi è morto. Ebbe fine da valoroso. Narrano alcuni scrittori ch' egli scontasse il fio d'avere sceleratamente in Roma, a 20 di settembre del 1526, poste le mani sino nella sagrestia di S..Pietro: altri poi di questa grave taccia scolpandolo, affermano lui in quel caso di Roma avere anzi risparmiati molti delitti. Quale il vero sia, morì combattendo pei suoi, morte che gl' invidieranno anime più della sua generose, nè sopravvisse all'onta d'una sconfitta. Onde la storia, giusta distributrice di lodi e di biasimo, Ugo di Moncada celebra col nome di valoroso.

La capitana di Filippino e un'altra galea, detta la Mora, spacciarono la capitana di don Ugo. La Gobba, detta così, mi penso, dal nome di Gobbo Giustiniani, affondò. Quivi morì Cesare Fieramosca, capitano imperiale. Il marchese del Vasto e Gobbo Giustiniani furono fatti prigioni. Già la vittoria si scopriva in favore de' Genovesi, combattenti per Francia. Le galee di Filippino aveano ricuperate due delle sue galee, oppresse dagli Spagnuoli. Due sole delle imperiali, veduto che la vittoria era degl' inimici, a fatica, molto mal conce fuggirono. Per concludere, delle sei galee uscite dal porto di Napoli, due si salvarono, due rimasero prigioniere, e due altre (la capitana e la Gobba) affondarono. Così nel golfo di Salerno Francia e Spagna contesero di chi dovesse essere il reame di Napoli, meno la città capitale,

quasi che tutto venuto a devozione de'Francesi. Pure nell'acquisto di Napoli consisteva tutto l'esito di quella guerra. Nè, dopo la battaglia di capo d'Orso, pareva che dovesse essere lontana la resa. Ma le cose de Francesi (tanto sovente tornano vane le previsioni degli uomini!) dechinarono dopo quella battaglia. Lotrecco, troppo fidando negli effetti di essa, certo di avere la città per fame, non s'induceva a più gagliardemente stringer l'assedio e a moverle assalto (di che già aveva avuto batoste con gli altri capitani del suo esercito), dicendo, così bella città volerlasi intera godere: quasi fosse da usar più riguardo alle mura che agli uomini!

Aveva rotti gli aquidotti delle fontane che entravano nella città, per così forzarla ad arrendersi. Ne seguì che le acque sparse stagnandosi, cagionarono al campo francese un' aria corrotta e putrida, non trovando alcuno sbocco e debito corso al mare, contaminarono l'aria de'luoghi; onde la peste, fosse effetto naturale dell'aere, fosse opera infernale degli assediati, che, come narrasi, espulsero a tal fine persone infette, s' appiccò dalla città al campo. Imperciocchè sin dal 1527 la peste travagliava l'Italia e la città nostra, la quale n'era stata invasa ed afflitta nel tempo dell'assedio (1). La mattina nel campo de'Francesi vedevi una foltae densa nebbia, che levata dall'ostro, gli alloggiamenti tutti occupava con una

(1) Nel settembre del 1527 si cominciò a sentire la peste in Napoli Gregorio Rosso.

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