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doglianze a Carlo che in Bruselle allora dimorava per mezzo d'un Giovan Paolo Coraggio, servidore d'Ettore Pignatelli, duca di Monteleone. Accolse favorevolmente Cesare le doglianze de'Napoletani. Propose la materia al suo consiglio. Terminò la faccenda col farsi il donativo di ducati 600 mila, ma da pagarsi dentro il termine di quattro anni, per potersi fra tanto con più comodo riscuoter la somma. Si sollecitò la venuta di don Pietro di Toledo, vicerè designato. Il dì 28 luglio dell'anno 1532, stando l' imperatore in Ratisbona, confermò gli antichi privilegî della città e del regno: ne concesse anche de'nuovi, quasi in compenso dell'ottenuto donativo.

FINE DEL LIBRO PRIMO.

LIBRO SECONDO

ARGOMENTO.

Della idea ordinatrice che rappresenta nelle nostre storie la persona di don Pietro di Toledo. Governo di questo vicerè, dal primo giunger tra noi insino alla venuta in Napoli dell' imperatore. Entrata di Carlo V in Napoli. Feste che gli si fanno dalla città: più gravi negozi ch'egli vi tratta.

Non tutti i popoli, i quali oltre le sedi loro con la fortuna delle armi distesero il loro imperio, conobbero poi bene l'arte di far che i vinti il loro giogo pazientemente portassero, e si affezionassero anche in certo modo a' loro dominatori. Grandi in questo furono, anzi eccellenti i Romani, e fra' moderni i Veneziani, ritraenti in questa parte da'loro antichi progenitori; il reggimento de' quali, per discendere a parlare della nostra storia, nelle terre che della Puglia occuparono, fu tanto savio ed umano, che volentieri, come trovo scritto, le altre terre a quelle vicine si sarebbero ad essi assoggettate. Il segreto di quest' arte per avventura consiste nel rispettare gli usi e i costumi proprî di ciascun popolo, e nel non disconoscere, per amore d' una forzata ed artificiale unità, le necessarie differenze, che le tradizioni e la natura stessa pone da luogo a luogo. Ma gli Spagnuoli non ebbero mai quell'arte bene appresa; onde

assai sovente le soggette province loro si ribellarono, e finirono con interamente sottrarsi al loro dominio; perciocchè troppo ostinatamente vollero renderle uniformi alla Spagna. Vedemmo nel primo libro di questa istoria, come, non appena scorsi pochi lustri dalla conquista, il governo del re desse giusta ragione a'popoli di sospettare, non gli Spagnuoli volessero appo noi indurre il tribunale della Inquisizione, novità da' Napoletani sempre ed unanimemente abborrita. Ma Ferdinando il Cattolico, re prudentissimo, scorte le contrarie inclinazioni e disposizioni de'popoli, tosto al male giunse l'impiastro, dichiarando, parola di re, Napoli per sempre esente d'Inquisizione. I reggitori spagnuoli a tempo dell' imperator Carlo V, cadendo nello stesso fallo, o non vollero o non seppero così presto adoperare gli stessi rimedì, come nel progresso di questa storia sarà manifesto.

La quale seguitando dico, che la guerra, la fame, la peste ed i vicerè avevano in assai miserabile guisa concio questo reame. Le passate calamità vi avevano rotto ogni freno di legge; nè il Colonna coi suoi provvedimenti era giunto a fare che la giustizia fosse al tutto osservata. Disordini, abusi, prepotenze di nobili, ribalderie di plebei: e le città, non che le campagne, mal secure da'malviventi. Erano oltre a ciò gli studi stati per le passate guerre interrotti; nè le belle opere di pace, dopo dechinata la fortuna de'nostri proprî principi, continuavano. Quindi la città nel suo aspetto mostrava tutt'i segni delle durate miserie, con una nobiltà arrogante e un popolo per fa

me squallido, pronto sempre a tumultuare. A quest'interni mali s'aggiunsero in processo di tempo anche gli esterni: i nemici, dopo i Francesi, i Turchi, giunti allora al più alto segno del loro potere, perchè retti da Solimano. Un governo che avesse provveduto a tutti questi mali e disordini, e levata via ogni traccia delle passate miserie, e fatto rifiorire lo stato, e tornata in vigor la giustizia, ed aperte nuove vie al traffico e nuovi canali, e nettato l'aere d'ogni influenza maligna, e preservato il regno dalla non solo minacciata, ma dalla tentata ancora invasione di Turchi; un tal governo, dico, avrebbe certamente meritato al Toledo quel titolo di gran vicerè, che alcuni scrittori troppo liberalmente forse gli dànno. Or se queste cose egli facesse, il nuovo vicerè, o se anche facendole non le guastasse con una, ch'era di per sè sola atta a tutto intorbidare e corrompere, voglio dire la Inquisizione, da tutto quello che son per descrivere giudicheranne chi legge. Ma per ordinatamente procedere nel mio racconto dirò prima chi fosse questo vicerè, e le cose da lui operate innanzi che giungesse al governo tra noi; poi le cose da lui operate nel suo governo a tutto l'anno 1547.

Pietro di Toledo marchese di Villafranca nacque nel 1484, secondogenito del duca d'Alba, di quella stessa illustre famiglia Toledo, di cui poi sotto al successore di Carlo V fu quel duca d'Alba, capitano famoso, ma che per i rigori usati da lui, come governator delle Fiandre, lasciò di sè nelle storie un nome esecrando. Nella prima gioventù fu Pietro accet

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