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tato paggio alla corte di Ferdinando il Cattolico, dov ebbe facultà di apprendere a quella scuola l'arte con la quale si governano gli uomini. Passato a'servigî di Cesare si vide con dolore posposto ad altri ne'sommi luoghi di corte e nel favore sovrano, quantunque in molte occorrenze avesse mostrato pruove non dubbie di senno e valore. Stanco di più oltre attendere quel premio che a' suoi servigî credeva dovuto, essendo ormai entrato negli anni della più ferma virilità (quarantotto anni aveva quando venne in Napoli governatore), si diè egli medesimo a chiedere all'imperatore il posto di vicerè di Napoli, che allora vacava, con quell'impronto ardire che tanto piace ai grandi, perchè non è altro in sostanza che una servilità ed un' adulazione più fina, parlandogli, come narrano, in questa sentenza :

<< To non mi starò mica, o Cesare, a rammentarvi i lunghi e segnalati servigî degli antenati miei, chè di quelli mi trovo guiderdonato abbastanza, poichè di povero e privato cavaliere signor titolato addivenni e di non bassa mano in questi vostri reami. Solo dirò che pur m'ange e crucia il pensiere, che ove che io sia per essere escluso d'un'altra mia giusta dimanda, non m' abbia il mondo a credere insufficiente a diventare uno de' vostri principali ministri, o che, non più godendo della grazia sovrana, la chiesta autorità conseguire io non possa. Che se da'sommi luoghi in casa vostra fui allontanato, mi risarcisca ora da questa non meritata repulsa il governo del napoletano regno, il quale d' un vigoroso braccio che il

regga abbisogna, dopo le passate calamità fieramente depresso, e più per essere venuto alle mani inesperte e deboli d'un cardinale, come testè udimmo il principe di Salerno tenerne in corte apposito ragio namento. Questa è la grazia che da voi attendo, o Cesare, e pel noto mio zelo alla M. V. imperiale, e per la somma clemenza e benignità del mio signor sovrano da lui conseguire non dubito (1).

Piacque al principe quel parlar franco del cortigiano, e volontieri concesse al Toledo quel carico, a tenere il quale ei mosse di Spagna il primo d'agosto dell' anno 1532, cavalcando alla volta di Napoli a spron battuto (2). Con lui s'accompagnarono alcuni cavalieri napoletani, e Gargilasso di Vega, poeta spagnuolo. Nel suo viaggio intrattennesi alcuni giorni in Siena, accoltovi a grande onore dal duca d'Amalfi Piccolomini, napoletano, governatore di quella città, con tutti que'modi cortesi che la gentilezza toscana seppe consigliare al duca di più squisito: onde il Toledo ebbe a dire, partendo, che avrebbe voluto meglio essere di quella cittadinanza, che andare in Napoli a gastigar malandrini, per mantenersi in reputazione appresso il padrone: dando così fieri lampi di quella severità che avrebbe mostrata in Napoli nel suo governo. Fu il duca d'Amalfi il primo che nel parlare gli desse il titolo di eccellenza, che dopo lui ritennero i vicerè, e che avanti di lui non avevano avuto. A Terracina, quando i confini del regno s'ap

(1) Filonico Alicarnasseo, vita (inedita) del Toledo. (2) Miccio, Vita di Pietro di Toledo.

prossimavano, richiese Colantonio Caracciolo, marchese di Vico, uno de'suoi compagni di viaggio, che gl'indicasse quel proprio dove, che il napoletano parte dal romano dominio; e poi che gli furono mostre dal cortese cavaliere due colonne che volevano a denotare, quivi le terre del re partirsi dalle terre di santa chiesa, il vicerè di null'altro sollecito, si diè minutamente a osservare ogni cosa, e, preso dalle bellezze naturali, che ad ogni passo s'incontravano nel paese che veniva novellemente a reggere, disse, parola d'animo tenacemente ambizioso: «Eleggere più tosto re Federico doveva per tomba questo reame che disperato di più tenerlo, vivere in terra e regno straniero ».

Entrò solennemente in Napoli il dì 4 di settembre del 1532. Fu ricevuto alla porta della città da Errico Minutolo (1) del sedile di Portanova, creato sindaco, com'era l'uso, a rappresentare l'intera cittadinanza per questa occasione solenne, e dagli eletti. Una immensa moltitudine di gente gli andarono incontro, quale a piè, quale a cavallo, tanto che la via da Napoli ad Aversa, ultimo riposo del vicerè, n'era tutta stipata ed ingombra. Giunto egli a porta capuana, allora sì che la calca fu grande. Pareva che non fosse rimasa nelle case persona, che non fosse accorsa a vederlo. Andossene difilato al duomo (1). Smontato di cavallo innanzi alla chiesa, entrò in es

(1) Gregorio Rosso-Il Parrini lo nomina Ercole Minutolo. (1) Scipione Miccio pone lo stesso giorno l'andata di don Pictro al duomo Gregorio Rosso il dì appresso.

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sa a giurare sugli evangelî i privilegî della città, giuramento del quale non si ricordò quando volle in Napoli l'Inquisizione, violando uno de'privilegî alla città concessi da Ferdinando il Cattolico. Così giurata l'osservanza de' patti, prese la possessione del governo. Rimontato a cavallo, se ne andò alle stanze apparecchiategli a castel nuovo, degne di re. Prima d'entrare in castello fermossi col cavallo. In quella trassero le artiglierie, facendo il solito sciupinio di polvere. I gridi della moltitudine ferivano il cielo.

Non furono le allegrezze popolari di troppo lunga durata. Applicossi il vicerè, prima d'ogni altra cosa, a fare sparire i segni delle passate miserie. Ordinò s'addirizzassero e s'ammattonassero le vie, torte,ineguali, fangose. Propose per ciò fare a'sedili certa nuova gabella sulla carne salata, sul formaggio e sul pesce di mezzo grano per rotolo. N'ebbe l'assenso unanime de' sedili, nobili e popolare. Solo vi si oppose e protestò contro un Fucillo di Micone, plebeo, come assai chiaro il dimostra il plebeo suo nome, mercante di vino. Costui, levato alta la voce, era seguito da una scapestrata plebaglia: uomini, donne e fanciulli. Incontrato presso alla chiesa di S. Pietro martire Domenico Basio Terracina, eletto del popolo, che tornava di castello a cavallo, posto la mano alla briglia, e fermatolo gli disse: come quella gabella non si ha altrimenti da porre; o tremasse, che avrebbe avuto arsa la casa dal popolo, e morti la moglie e i figliuoli. All'eletto non parve vero di po

tere con buone parole svignarsela. Ma la sera stessa il Fucillo è preso e condotto prigione nelle carceri della Vicaria, la quale allor si teneva appresso alla strada de' Mannesi e Marangoni (1). Il popolo del Mercato, della Selleria e del Porto, udito questo, si leva tutto a rumore. Traggono al reggente Urias: rivogliono il Fucillo: minacciano di sforzare il palagio stesso della ragione. Avuto lingua di ciò il vicerè, mandò a dire all'Urias: tenga fermo, e senza più col cappio in gola faccia sospendere il Fucillo ad una finestra di quel palagio. Stesse pur di buon animo il reggente: a quella vista il popolo si sarebbe quetato. Così fu fatto. E il popolo a quel sanguinoso spettacolo dell'amato Fucillo strangolato (19 di gennaio 1533) pose giù ogni baldanza. La sera il vicerè cavalcò la città, seguito da faci ardenti ed uomini armati. Le strade furono ammattonate, ma col sangue de' cittadini. Perciocchè non passarono molti giorni ed Antonio della Volpe, e Giovan Battista della Tagliara, uomini della Selleria, furono anch' essi d'ordine del vicerè appiccati per la gola per aver commosso il popolo a novità, e tentato che il Focillo scappasse a giustizia. Ma non si creda che il vicerè tenesse in maggior conto i nobili che i plebei. Il quale per mostrare che non era appo lui eccezione di persone, fece indi a poco tagliare il capo a frate Andrea. Pignatelli, dell'Ordine di Rodi, il quale veniva universalmente accagionato della morte d'un conte di Policastro (26 di marzo 1533). Così il vicerè non

(1) Filon. Alicarnasseo, Vita del Toledo..

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