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cacciato in prigione

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chè così m'ha comandato il marchese del Vasto.-II vicerè replicò:- Si levasse, altrimenti lo avrebbe Buon re tengo vicino, disse l'Aragona, il quale mi verrà a liberare.-In questo accorre il marchese, che cos'è? gridando da lungi al cognato-Nulla, l'altro con un sorriso di sdegno risponde. Questo signor vicerè vuole che io di qui mi levi in ogni conto.-I marchese allora, volto al vicerè con occhi di brage: Egli di qui non si leverà, no certo. E il vicerè: Lo vedremo. Il marchese, posto mano al pugnale, e sfoderandolo mezzo: don Pietro, don Pietro! mormorò impedito tra denti per la tropp'ira. E l'altro, posto egli anche mano al pugnale, ferocemente: marchese, marchese! cupo risponde. A'gridi lo stesso imperatore accorre, e rimproverandogli entrambi, fa che pel momento desistano. Ma non si tosto ebbe fine il convito, che si produsse insino a ora molto avanzata, ecco il Vasto, nelle ombre della notte, entrar furtivo in castello a persuadere l'imperatore che rimovesse il Toledo dal governo del regno: tale essere il desiderio di tutta la nobiltà.

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Ma l'imperatore interrompendogli le parole, non penò troppo a fargli comprendere che ciò a lui niente piaceva. Però il marchese, da buon cortigiano rinunziò al disegno, e abbondando in prudenza, non si fe' più vedere nel parlamento, dove la proposta del rimuovere dal loro luogo i regi ufficiali fu abbandonata; nè fe' parte delle nuove grazie che Carlo V

concesse, come a disteso riferisce il Summonte (1). Il marchese col non più intervenire in S. Lorenzo, rendė, com'è chiaro, il più gran servigio che potesse al suo nemico. Ma dalla sua banda il vicerè non dormiva. Andrea Stinca, eletto del popolo, stato già ragioniere della Sommaria, uomo di non mediocre perizia nelle faccende civili, dependente in tutto e per tutto dal vicerè, chiesta e ottenuta udienza dall' imperatore, il dì appresso al convito parlògli, come dicono, in questa sentenza:

<< Venuto è all'orecchio del popolo di questa città, augustissimo principe, la quale per la devozione ai passati re aragonesi, ed ora a Cesare, nome di fedelissima ottenne, che i nobili di questa città medesima fanno opera di procacciare da V. M. imperiale di rimovere il vicerè Toledo dal governo del regno. Ora i cittadini, dubitando non abbiano ad aver effetto cotesti malvagi loro proponimenti, me mandano a'piedi di V. M. implorando resti servita di considerare per bene lo stato delle cose, avanti di prendere quella resoluzione che maggiormente la M. V. giudicherà opportuna. Già è cosa chiara e manifesta che i nobili di questo regno han per lo passato maltrattato ed oppresso il povero popolo l' insolenza de' quali non si creda che si possa in alcuni termini contenere, vana spesso tornando la stessa autorità de'vicerè e luogotenenti della corona, con grave discapito e pregiudizio della stessa prerogativa reale. Oh non fur visti costoro armi ed armati tenere ne' portici delle (4) Lib. VIII, pag. 218.

loro case, e quando abbisogna, dar addosso agli aguzzini, famigli della corte, e strappar loro dalle mani i malfattori, e fare che sia impedito il corso della giustizia? A cui non noto che costoro tengono stipendiati uomini perdutissimi, vili e feroci scherani delle turpi loro ribalderie? Questi mali se ora non più tanto travagliano la città, al vicerè prudentissimo e rigido a un tempo mantenitor di giustizia se ne debbe l'obbligo attribuire. Però vengono ad accusarlo appresso di V. M. d'immaginate colpe e disegni. La vera colpa del vicerè la dirò io, checchè me ne abbia poi ad avvenire. La vera colpa del vicerè è d'averci difeso contro a' nobili, ed averli costretti a pagar la mercede di lunghi e sudati lavori, d' aver loro con la forza inspirato altri sentimenti, e se non altri sentimenti, chè, meglio pensandoci, questo credo impossibile, aver loro comandati altri esterni modi del vivere. Oggi da noi si respira, e non più sotto tiranni, ma sotto re conosciamo di vivere. Se il vicerè si toglie, argine alle sfrenate loro libidini, i pessimi costumi loro traboccheranno più fieri per lo rattento. V. M. giudichi. A V. M., e solo a V. M., s'appartiene di fare quel che più torni a maggior utile del real servigio e a pubblico bene. Qualunque sia per essere la determinazione sovrana, noi cittadini umili e taciti obbediremo. » L'imperatore rispose : << Nota esserglila fedeltà del popolo napoletano. Avrebbe deliberato quello che al pubblico servigio e al vantaggio del popolo fosse da fare. » E così detto lo accomiatò.

Ma giunsero tali novelle in Napoli all' imperatore che gli fecero ben presto dimenticare questi dissidi municipali, tutta richiamando la sua mente intorno alle cose della generale politica europea. Seppe Francesco di Francia, stanco di riposo, agognar di nuovo a Milano, ferire lo Stato del duca di Savoia, ・ cognato di Cesare. Si riaccese la guerra. Onde Carlo V, non volendo in Napoli trovar la sua Capua, a' 22 di marzo del 1536 mosse alla volta di Roma, dove si diè la satisfazione di concionare innanzi al papa ed a'cardinali in pubblico concistoro contra l'emulo re, tutta su lui rovesciando la colpa del sangue cristiano che sarebbe versato. Lasciò il regno per novelle concussioni povero e afflitto, i grandi per le pazze spese fatte oberati di debiti ed esausti di danaro. Nè si creda alcuna quistione che fosse risoluta, o niun dissidio che fosse composto ne' quattro mesi che stette in Napoli l'imperatore. Nobili e vicerè, nemici tra loro, e quest'ultimo in tutta l'alta potenza del sommo suo grado. Miglior accordo appariva tra popolo e vicerè, sol quando i nobili eran costretti a soggiacere allo stesso giogo di ferro; nè tardarono avvenimenti che ruppero anche questo buono accordo. In somma la venuta in Napoli di Carlo V non partorì quel bene immediato ed effettivo che i popoli se ne auguravano. Nondimeno la facilità delle promesse, e l'avere la nobiltà, specialmente i baroni, umiliata e depressa, e lo splendor della gloria gli ebbero acquistato i cuori de'Napoletani, e per secoli il nome di Carlo V imperatore fu da loro benedetto.

Da ciò apprendano i principi quanto sia ad essi facile il procacciarsi l'amor de' soggetti, se pure non vuol dirsi che, da poi che è pur forza obbedire, senta l'uomo quasi instintivamente, come per più recenti esempî è manifesto, che è meglio obbedire a chi più altamente sa comandare.

FINE DEL SECONDO LIBRO.

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