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I rimproveri di Beatrice e la lussuria di Dante

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stare ogni altra considerazione, niente certo dovrebbe tanto valere a spiegare almeno le finzioni allegoriche della Com

disgusto il poeta (cfr. D' Ovidio, Studii, 218 ss); e so da quei velenosi sonettacci (vd. Del Lungo, Dino, 2, 612 ss; Dante ne' tempi di Dante, Bologna 1888, p. 435 ss) qualche costrutto si cava, è questo, che Dante inveì contro Forese, sputandogli in viso l'origine adul terina, i bagordi, gli stravizi e le mariolerie; e che Forese si sca. gliò su Dante, abbajandogli contro ch'era un pezzente ed un vigliacco, e forse mordendolo velenosamente con allusioni a colpe che il nostro codice penale chiama peculato, concussione, corruzione. Certo è, che nelle contumelie di Forese indarno si cercherebbe pure la più lontana allusione a vita dissoluta; anzi, da qualche cenno si potrebbe desumere che Dante allora menasse vita operosa, ben chè non decorosa nè onesta, a sentir Bicci novel. Come si possa da quell' ontoso metro argomentare che Forese fu a Dante compagnone di vita scapestrata, io non vedo punto; salvochè non si voglia continuare a vedere in quella tenzone una burla, un badalucco da begli umori, un palleggio di rime preburchiellesche. Nè vedo bene perchè le contumelie siano proprie di un periodo di vita che prenda nome dalla passione mondana. Nell' episodio del Purgatorio c'è un'eco dolorosa di codesta tenzone abominevole, che non fu certo la sola briga che allora cercasse l'Alighieri. Dice il poeta, svelandosi, a Forese;

Se ti riduci a mente

Qual fost meco e quale lo teco fui,
Ancor fia grave i memorar presente.
Di quella vita mi volse costul
Che mi va innanzi...

Qual fosti meco, cioè come ti comportasti con me, contro di me; Di quella vita, cioè di odii e di litigi, pettegola e volgare. Certo, codeste contumelie, codeste brighe non sono della mistica adolescenza del poeta; ma non si può dire che siano indici di un periodo di vita lussuriosa e dissoluta. Direi piuttosto che sono escrementi d'un periodo di vita attiva e battagliera. [Notevole un recentissimo articolo di G. Venturi, Dante e Forese Donati, nella Rir. d' It., mar. zo 1904, p. 391 ss. Non credo però che la tenzone sia anteriore al 1290.] E allo sviarsi e ingolfarsi nei pubblici negozi, e incanagliarsi tra i popolani del Comune, par che alluda il sonetto del Cavalcanti (cfr. Lamma, Quest. 44 ss); il quale non volle mai uscire dalla

media, quanto la testimonianza chiara ed esplicita dello stesso poeta. Il quale afferma che, dopo il primo amore,

disdegnosa solitudine nella quale rispetto a tutto e a tutti s'era rin. chiuso; non volle, benchè, a quel che pare, stuzzicato o invitato, 'seguire sotto le vittoriose insegne delle Arti il suo Dante', nè volle 'portare ne' Consigli del Popolo e ne' magistrati del Comune il tributo del potente suo intelletto' (Del Lungo, Dino, 1, 372). ‘L'annoiosa gento' fastidiva Guido, come il profanum vulgus' Orazio; ed egli pretendeva imporre la sua linea di condotta all' amico. Comunque sia di ciò, perchè bisogna bene tener nel debito conto le osservazioni del D' Ovidio (Studii, 202 ss), il Cavalcanti non rimproverava certo a Dante la vita mondanetta, della quale egli stesso era buon campione. Resta l'ultimo indizio di prova, il partecipare alla pena dei lussuriosi. Ma anche qui si tratterà del solito caso di daltonismo. Dante e Virgilio e Stazio andavano ad uno ad uno dal lato schiuso' della cornice dei lussuriosi, perchè fiamma di quell' incendio non li assalisse; e Danto poi si teneva così stretto al ciglio della cornice, che temeva di cader giù. Attraversa bensì, con Virgilio e Stazio, per entrare nel paradiso terrestre, quel muro di fuoco che chiude il passo a tutte le anime sante' del regno dell' espiazione; ma, benchè non vi siano, come pare, netti confini tra le fiamme della cornice dei lussuriosi e questo fuoco che sequestrava Dante dalla beatitudine, tuttavia si tratterà di ben altra figurazione; cfr. Purg. 9, 19-33; e vd. Buti, 2, 116 e 202. Certo, nessuno può penetrare nella divina foresta se pria non morde... il fuoco'. Il poeta, d'altra parte, non si accusa di lussuria, ma d'invidia e di superbia (Purg. 13, 133-138); e non sopporta tormento nella cornice dei superbi, nè in quella degl' invidiosi, perchè l'espiazione è per le sole anime dei defunti. Adunque, se non si vuole assolvere Dante, nè per inesistenza di reato, nè per non provata reità, si ordini almeno un supplemento d'istruttoria; ma si escluda ad ogni modo che a vita lussuriosa e dissoluta alludano i rimproveri di Beatrice. Affatto gratuita è poi la supposizione che Beatrice, nel canto trentesimo, rimproveri al poeta colpe diversissime, di senso e d'intelletto. Una è la colpa rimproverata, lo straniamento; il quale, poco per volta, condusse Dante tanto giù che, per salvarlo, la loda di Dio vera dovette visitar l'uscio dei morti, e lasciare nell' inferno le sue ve. stige (vd. Fornaciari, Studj. 175 ss).

Di quale straniamento parli sempre il poeta 349

s' accese dell' amor filosofico, e che l'amor filosofico scacciò Beatrice dalla rocca della sua mente, e che in questo suo secondo amore errò. Questo, non altro, è lo straniamento di cui parla sempre il poeta; e nessuno dirà ch' egli, nell'episodio della divina foresta, voglia smentire le dichiarazioni del Convivio; ch' egli, nella Commedia, voglia disadonestare il preteso adonestamento della donna gentile della Vita nuova.

Del resto, nella stessa Commedia è chiarita ogni cosa. Dopo il rabbuffo, il pentimento e le trasformazioni del Carro, chiedeva il poeta a Beatrice :

E Beatrice,

Ma perchè tanto sopra mia veduta
Vostra parola dosïata vola,

Che più la perde quanto più s'aiuta?

Perchè conoschi, disse, quella scuola
Ch' ai seguitata, e veggi sua dottrina
Come può seguitar la mia parola;

E veggi vostra via dalla divina

Distar cotanto, quanto si discorda

Da terra il ciel che più alto festina.

Ma il poeta, che aveva bevuto dell' acqua di Lete, obbiettava:

E Beatrice,

Non mi ricorda

Ch'io straniassi me giammai da voi

Ne honne coscienza che rimorda.

E se tu ricordar non te ne puoi,
Sorridendo rispose, or ti rammenta
Come bevesti di Letè ancoi;

E se dal fummo foco s'argomenta,
Cotesta oblivion chiaro conchiude
Colpa nella tua voglia altrove attenta.

Se non si pensasse che le più semplici questioni dantesche s' ingarbugliano spesso maledettamente per uno sciocco pregiudizio, non si saprebbe spiegare come mai alcuni si siano messi in testa che qui Beatrice rimproveri al poeta una nuova colpa, ben più grave della colpa per taglio e per punta già colpita. Qui, nessuno dovrebbe negarlo, si tratta dello straniamento dalla Beatrice allegorica: si parla non

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solo di scuola, ma di dottrina' che non può seguitar la parola della 'loda di Dio vera'; si parla di via umana e di via divina ('). Ma lo straniamento qui ricordato, non può esser diverso dallo súraniamento già rimproverato. Altrimenti bisognerebbe conchiudere, che il rimprovero più grave Beatrice si riserbò di farlo per incidenza e quando Dante non poteva più pentirsi, perchè non poteva più ricordare il fallo stesso; e che l' alto fato di Dio era stato rotto, perchè lo straniato avea passato Lete e gustata tal vivanda senza alcuno scotto di pentimento (cfr. Bull. ns. 9, 33).

5.

Più volte ho pensato che è poco probabile che Dante non abbia lasciato nessuno spiraglio da cui si possa vedere, come due e due fanno quattro, che Beatrice è una figura meramente allegorica.

(4) Cfr. Serocca, Il pecc. 8 s. Dice Virgilio a Stazio (Purg. 21, 31):

ful tratto fuor dell' ampia gola D'inferno, per mostrargli, e mostrerolli Oltre, quanto il potrà menar mia scuola.

Inclinerei a vedere adombrata una figurazione dello straniamento di Dante, anche nell'oblío' in cui, nel cielo del Sole (Par. 10, 60), 'ecclissò nella mente del poeta Beatrice, che questa volta ne rise.

È Beatrice nella Comm. l'anima d'una donna morta? 351

È Beatrice, nella Commedia, l'anima beata d' una don

na morta?

Certo, la prima volta che Virgilio parla di lei, la chiama anima':

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Anima fia a ciò di me più degna,

Con lei ti lascerò nel mio partire.

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Ma, lasciando stare che qui la voce anima' occorre per una specie di attrazione del comparativo, non bisogna dimenticare che Amore è forma di filosofia, e però... si chiama Anima di lei' (Conv. 3, 13, 109).

Essa è beata'; lo afferma Virgilio, fuor della valle dolorosa:

E donna mi chiamò beata e bella.

Ed anche nel Convivio (2, 2, 6; 9, 53 ) il poeta la chiama 'Beatrice beata '. Ma, anche la Fortuna è beata' ( Inf. 7, 91); e se Beatrice vive in cielo con gli angioli', come si legge nel Convivio e si vede nella Commedia, anche la Fortuna vive con l'altre prime creature lieta', e come le altre Intelligenze, è ministra e duce'.

Resta dunque a vedere se si tratti d' una defunta. Le anime dei defunti, uomini o donne, non sono mai chiamate nè uomini nè donne. Virgilio dichiara subito che non è più un uomo:

Non uomo, uomo già fui.

'Donna' invece è sempre chiamata Beatrice, come 'donne ' son sempre chiamate le personificazioni allegoriche (1). Vero

.

.

(4) Donna', Beatrice: Inf. 2, 53; 2, 76 donna di virtù'; 15, 90; Purg. 1, 53; 26, 59; 30, 32; 30, 64; 30, 96; 32, 122; 33, 29 · Madonna'; Par. 2, 46 · Madonna'; 4, 134; 5, 94; 7, 11; 8, 15; 8, 41 ; 10, 93 bella donna', cosi chiamata da s. Tommaso; 14, 84; 15, 32;

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