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per una sola che vi cascò; tanto più che, sebbene non cammini, o almeno vada un po' zoppo il senso logico, la dizione materiale si regge anche così. Lo Scolari credè avere sciolto il nodo dicendo che ruina significa il luogo da cui son precipitate le anime per comando di Minosse; ma questa interpretazione non regge, perchè si tratta qui d'anime già venute al loro destino e non sul punto di esservi mandate; e perchè dovendosi intender come vuol egli, bisognerebbe applicare questo verso a tutti i dannati, non ai soli sensuali di cui qui si parla (dacchè ogni generazione di peccatori precipita giù da quel luogo), e rimarrebbero anche senza mestiere i versi:

Intesi che a così fatto tormento

Enno dannati i peccator carnali.

Dall' altra parte la voce rovina in significato di impeto, urto furioso, o simili, non è nè strana nè

sizione all'intento sanissimo di quel benemerito spositore), potrebb' essere che al suo giudizio non si presentasse più questa lezione tanto goffa e inopportuna come gli comparve in addietro. Chi fu primo a darne l' indizio, ha poscia avuto occasione di confermarsi nella sua credenza, riscontrando antichi testi dove le due dizioni sono al modo nostro distinte. Tali sono due testi del secolo XIV, nella Biblioteca della Università di Bologna; nel primo de' quali si vede scritto a uisto, e nel secondo, creduto sincrono od almeno prossimo al tempo dell'autore, è tolto anche maggiormente ogni dubbio di confusione, atteso alla forma del carattere. Il che fa soverchiare la prova per documenti, mentre anche la ragione critica, assistita da un solo testo, avrebbe fondamento bastante per escludere la guasta lettera.

nuova: ed un esempio similissimo al dantesco occorre in una Cronaca del 300 che presto vedrà luce, e che in ordine alla lingua è oro di coppella. Eccolo: la notte rivegnente fracasciò parte dell' antiporto di S. Marco per rovina d'acqua; ed un esempio meno antico lo abbiamo nell' Orl. Inn. c. 4, 10. Pure uscì fuori, e con quella rovina

Va che dalla balestra esce la viera.

Inf. canto VII, verso 33.

<< Gridandosi anche loro ontoso metro.

Se nel Dante pubblicato a Firenze il 1837 e ridotto a meglior lezione con l'aiuto di varii testi a penna da quattro Accademici della Crusca, si preferisce la lezione Gridando sempre in loro ontoso metro, come quella che non solo fa scorrer meglio il verso, ma eziandio porta al concetto assai di chiarezza: se anche il Sig. Ab. Bianchi lascia questa per migliore nel suo testo; non mi pare opera del tutto perduta, lo spenderci su quattro parole, studiandomi di mostrare il contrario.

In quanto all' esser il verso o più o meno armonioso, io non ripeto, perchè non giova qui contendere d'armonia; ma in quanto all' acquistare il concetto chiarezza maggiore, io penso, e sia detto con perdono, che la cosa vada altrimenti. A chiarirsi di tal verità non accade altro che recarsi a mente lo strano e doloroso giuoco di quelle anime, e provarci quindi tutte e due le

lezioni. Occupano esse anime uno smisurato cerchio, mezzo gli avari, mezzo i prodighi; e stando in continuo moto, non posson però mai questi passare nel mezzo cerchio di quelli, o quelli di questi, servando tal ordine che mentre la frotta degli avari si muove, per esempio, da destra a sinistra, quella de' prodighi lo fa da sinistra a destra, svol tolando con forza tutta di petto, gravissimi pesi, e mettendo grand' urli per aiutar la fatica; tanto che vengono ad incontrarsi a due punti del cerchio, dove si proverbiano tra loro, dicendo i prodighi agli avari: perchè tieni? cioè: perchè sei tenace del tuo; e gli avari a' prodighi: perchè burli? cioè perchè ne fai getto: e così detto voltano faccia, rotolano i lor pesi, cacciano i loro urli, finchè s'incontrano al punto opposto, e quivi da capo si danno la berta, col medesimo perchè tieni e perchè burli. Ora applichiamo. La comune lezione ritrae a stampa questa miserabile ed affannosa vicenda. L'avverbio anche accenna qui ripigliamento d'azione ed è lo stesso che parimente, nel medesimo modo; come negli appresso esempi. Vite Ss. Padri: Il comperò da capo e presentoglielo, ma il Patriarca anche lo vendè, e così fece tre volte. Quivi medesimo: Partissi da frati e andossene anche alla solitudine. Dante, Inferno 34.

E aggrappossi al pel com' uom che sale,

Sì che in Inferno i credea tornar anche. L'affisso al gerundio gridando accenna reciprocità, e mostra apertamente che le grida sono dagli uni agli altri; e così tanto questo affisso quanto il detto avverbio si vede che quadrano compas

satamente a dipingerci la dolorosa tresca di quei miseri.

Esaminiamo l'altra lezione: Gridando sempre in loro ontoso metro. Significato primitivo dell' avverbio sempre, per lo più, di rinnovellamento di vicenda di azione, altro che col rapporto di quando, di che o simili. Decam. 2, 4. E sempre che presso gli veniva, quando poteva, con mano, comecchè poca forza n'avesse, la lontanava. E 9, 3. Il quale sempre si guastava quando al prezzo del podere domandato si perveniva. Vita di S. Franc. E sempre che egli mandava alcuno de' frati a fare alcuna ubbidienza ecc.; dal che si raccoglie che a lasciare nel caso nostro il sempre, la locuzione diventa elittica, il cui intero sarebbe: gridando sempre che arrivano all' altro punto, in loro ontoso metro. La mancanza d'affisso al gerundio ci toglie l'idea di reciprocanza; ed il senso derivante da questo fonte sarebbe che i dannati gridassero continuamente in loro ontoso metro, senso che viene rincalzato da quella preposizione in: e ciò non è nè può esser vero. E di fatto quelli spiriti svoltolando i lor pesi mettono di grandi urli, cioè suoni inarticolati e discordi, e non posson certo gridare il loro ontoso metro, cioè il perchè tieni, e perchè burli; se già non volessimo dire che sieno una cosa medesima e i grandi urli e l'ontoso metro: e questa sarebbe grossa, perciocchè la parola metro indica per sè stessa un suono articolato e misurato, e tal suono ha solamente luogo a' due punti del cerchio, dove ripervenuti se lo gridano anche, e via indietro urlando e svoltolando. Qui

dunque non c'è mezzo: o dare alle parole quel significato che strettamente non hanno, o far dire al Poeta ciò che non può aver voluto dire. Queste poche osservazioni, alle quali fare ciascuno era buono sol che ci si fosse messo, ho fiducia che basteranno a ritornare in vita la comune lezione di questo verso:

Gridandosi anche loro ontoso metro.

Inf. canto XIII, verso 63.

<< Tanto ch' i' ne perdei le vene e i polsi.

Il Lombardi più di tutti gli espositori si assottiglia di provare che la vera lezione di questo verso è Tanto ch'i' ne perdei lo sonno e i polsi; perchè, egli dice, « alla perdita della vita, che sola per le << perdute vene e polsi s'intende, fa questa lezione «< con giusto grado precedere la perdita da Pietro << fatta del sonno, cioè le notti da esso lui ve«gliate per esercitare con fede ed esattezza il « suo impiego, venendo in sostanza a dire il me<< desimo che se avesse detto: tanto ch' io ne perdei « gli agi e la vita. » Molti fanno eco al detto valoroso comentatore, e tra' molti sono i quattro Accademici ricordati nell' osservazione precedente; non facendo un caso al mondo di ciò che ne dice il Biagioli con queste parole: « Dante non potè dir <«< cosa tanto scipita; che simile sarebbe al dire di « colui che per mostrare le sue perdite dicesse: ho << perduto due lire e cento milioni. Adunque la pa

T. II.

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