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tet semen fratri suo. Quella legge trovavasi registrata nel Deuteronomio 3o, ed era ordinata a conservare, quanto fosse possibile, le famiglie coi rispettivi loro patrimonii; perciocchè era prescritto che il primo figlio, nato dal fratello del defunto e dalla costui vedova, portasse il nome e redasse la sustanza del defunto stesso, sicchè in questo figlio rivivesse e si restaurasse la famiglia il che alla maniera ebraica si diceva: resuscitare semen fratri suo. Ciò premesso, vennero quei biechi interpellatori a proporre il caso nei seguenti termini. « Vi erano adunque << sette fratelli, ed il primo di questi morendo senza figliuoli, << lasciò la vedova al secondo, che la tolse a moglie; e morto << anche questo senza figli, la vedova fu presa dal terzo, ed << avvenuto il medesimo a questo, la moglie passò al quarto, << e così via via fino al settimo, che anch'esso morì orbo di prole, << e da ultimo morì anche la donna. Ora chiediamo noi: Nella << risurrezione, quando saranno risorti, di chi sarà moglie co<< lei? chè tutti e sette la ebbero viventi per loro. » Questo fu il grande cavallo di battaglia, che quei Sadducei opposero al Salvatore colla fiducia di confonderlo, di umiliarlo; e pensate se quella era faccenda da loro o da altro intelletto ben da più del loro! Prima nondimeno ch' io vi esponga la risposta data dal Signore a coloro, sarà bene che io, a fine di preoccupare un certo pregiudizio, che potrebbe farlavi parere meno compiuta e stringente di ciò, che è veramente, vi richiami alla memoria una dottrina, che già tempo vi proposi, e quì vuol tenersi presente al pensiero.

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Già pertanto vi feci considerare, che quantunque in Cristo inabitasse la pienezza della Divinità, come parlò l'Apostolo questa nondimeno era in lui nascosa, velata dalla forma minore di sè, della quale erasi circondato; tanto che di fuori non apparisse, che un uomo come gli altri, con tutte le condizioni e proprietà, che si derivavano dal tempo in cui viveva, dalla contrada in cui era nato e cresciuto, dalle relazioni domestiche e civili, che lo circondavano e somiglianti. Era in somma un Siro, un Palestino del suo secolo e del suo paese: poniamo che ne apparisse quanto bastava per crederlo Dio; ma appunto perchè ciò si dovea credere, è certo che non se ne potea vedere quanto si sarebbe richiesto per acquistarne l'evidenza. Sarebbe dunque irragionevole aspettarsi dai suoi discorsi più

di quello, che l' umana sua natura portava, con quei lampi fugaci e più o meno fulgidi, che agli animi ben disposti ne facessero conoscere per fede, non per intuizione il Dio nascoso che era in lui, o che piuttosto era lui. Anzi in quei medesimi discorsi (e questo fa più al presente proposito), ei non si metteva a dimostrare la verità ed a confutare gli errori a punta di dialettica, come si usa tra noi nella scuola e nei libri: oltre che ciò sarebbe stata cosa affatto aliena dalle abitudini orientali, i suoi uditori non ne erano per niente capaci. Egli pertanto discorreva come si usa nei comuni parlari, molto supponendo, molto lasciando intendere di traverso, e proponendo i varii concetti come dall' andamento naturale del discorso gli si offerivano 3. Premessa quest' avvertenza, voi troverete pienissima e calzantissima la risposta data da Gesù al dubbio o caso da quei Sadducei recato in mezzo.

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V. Egli adunque disse in forma d'interrogazione espressa dal solo Marco: « Forsechè voi non errate per questo, che igno<< rate le Scritture e la potenza di Dio?» Nonne ideo erratis, non scientes (cioè quia non scitis) Scripturas neque virtutem Dei? per la quale ultima voce nel greco si legge dúvaμiv, e però l'ho voltata per potenza. Ciò veramente potea bastare; perchè di fatti se coloro avessero capito lo spirito delle Scritture, ed avessero avuto un concetto men difettivo della onnipotenza di Dio, non avrebbero per fermo fantasticata quella stranissima faccenda di connubi dell'altro mondo. Ma S. Luca, che non ha quest' ultima frase recata dagli altri due, ci ha serbata una risposta più piena, e da lui ve la riferirò, perchè negli altri non ve n'è che una parte. Gesù pertanto disse così: « I figliuoli << di questo secolo si maritano e sono dati a nozze: » Filii huius saeculi nubunt, et traduntur ad nuptias; e vuol dire: è cosa propria degli uomini mortali in questo mondo di accoppiarsi in matrimonii. Dei maschi quì si dice che prendono moglie, delle donne che sono date; quantunque il traduttore latino abbia grecizzato, adoperando nel primo caso il nubunt, come il rapoūst, che dai Greci si usa per entrambi i sessi, e come gli Ebrei fanno del loro (chathan). Poscia seguitò; « Ma quelli, che << saranno degni di quel secolo » (intendi futuro) « e della ri<< surrezione dei morti, nè si ammogliano, nè si maritano. »

Neque nubent neque nubentur, coll' ebraismo e col grecismo che or ora notai. È poi da osservare come in questo luogo non si parla, che della risurrezione gloriosa dei giusti, la quale sola merita questo nome; chè l'altra dei reprobi meglio si chiamerebbe e si chiama di fatti nelle Scritture eterna morte 33.

Da ultimo il Salvatore aggiunse una ragione intima, e direi quasi a priori, per la quale dopo la risurrezione non vi può essere più alcun bisogno od alcuna convenienza di connubi, essendo definitivamente e per sempre cessato l' unico scopo, pel quale l'unione dell' uomo colla donna fu dall'autore dell' universo istituita. « Perciocchè » (ei soggiunse, rendendo ragione del non nubent etc.) « non potranno più morire, perchè << sono eguali agli angeli, e sono figli di Dio, essendo figli << della risurrezione. » Neque enim ultra mori poterunt: aequales enim angelis sunt et filii sunt Dei, cum sint filii resurrectionis. Intorno al qual luogo è pria di tutto da notare, come da quell' immortalità affermata degli uomini risorti, resta come dianzi accennai, troncata dalla radice la proposta questione dei loro connubi; i quali (così ragiona S. Agostino ") essendo istituiti per avere figli, e questi richiedendosi nel mondo per riempire i vuoti lasciati dalla morte, ne sèguita che abolita la morte, cessa in un medesimo il bisogno di figliuolanza e quindi ancora di connubi. Dove poi in S. Luca leggiamo aequales angelis sunt, così eziandio è nel greco isάryeha; ma vale propriamente somiglianti agli angeli, e risponde al sicut angeli (ýs ayreλo) degli altri due Evangelisti. La quale somiglianza, benchè nel contesto sembri riferirsi alla esenzione dalla morte, i Padri nondimeno ed i Dottori, come S. Basilio 35, S. Bernardo 36, S. Tommaso 37 ed altri assai la intendono comunemente della purezza verginale dei risorti, non senza un accenno a quella purezza, la cui mercè alcuni fortunati mortali cominciano essere fin da questa terra somiglianti agli angeli, disponendosi così ad esserne ultimamente degni consorti nel cielo. Finalmente in quella frase: filii resurrectionis sunt non si deve vedere, che un semplice sono risorti per quell' idiotismo ebraico, che spesso vi ho fatto notare nell' uso della voce ¡ (ben) figlio, per indicare la generale nozione di un soggetto derivato da un agente, o comunque dipendente da un altro, rispetto al quale abbia una certa relazione come di figliuolanza. La sentenza poi

è che i risorti a vita gloriosa, per la immortalità che parteciperanno da Dio, non solo dell'anima, ma eziandio di tutta quanta la loro persona umana, cominceranno essere, in nuova e peculiarissima guisa, suoi figliuoli.

VI. Con ciò potea parere spedita la quistione proposta; ed era di fatti, se se ne fosse stato alle semplici coloro parole; ma, come innanzi vi dissi, i Sadducei professavano un errore ancora più grave, negando risolutamente l'immortalità dell' anima umana, e quindi per effetto di quella negazione, doveano ancora rigettare il risorgimento dei morti, il quale pure costituiva una credenza universalissima della loro nazione. Di qui avveniva che, persuasa loro la immortalità dell'anima, non potevano avere nessuna difficoltà ad ammettere la credenza comune intorno alla risurrezione; tanto che, veduto la disposizione delle coloro menti per tale rispetto, per essi il dimostrare quella, era il medesimo, che aver dimostrato anche questa. Una siffatta osservazione ci è indispensabile, per non vedere una specie di apparente incoerenza nel discorso, che Gesù soggiunse alle cose già riferite. Egli avendo dichiarato, come in quella nuova vita non vi può essere luogo a connubi, volle altresì raffermare la universale credenza, che i morti risorgeranno; e cominciò dal dire: De mortuis autem quod resurgant etc. Ma dall'argomento che ei ne recò, si poteva solo dedurre che le loro anime siano superstiti alla morte; il quale ragionamento per un nostro scredente di certo non conchiuderebbe nulla a convincerlo della risurrezione, potendo quegli ammettere l'immortalità dell' anima, e non credere alla risurrezione dei morti; laddove quell' argomento stesso, considerato come ad hominem, cioè per le speciali disposizioni di quei Giudei o piuttosto Sadducei, coi quali Gesù disputava, era apodittico, stringentissimo; di tal che i suoi contraddittori non osarono più replicare, ed alcuni dei circostanti legisti se ne dissero pienamente soddisfatti, come tosto udirete.

Il Signore adunque si continuò così: «Che poi i morti siano << per risorgere, non leggeste forse nel libro di Mosè ", come << Iddio parlando dal roveto gli disse: Io sono il Dio (¿ Osóę) di << Abramo, ed il Dio d' Isacco, ed il Dio di Giacobbe? Ora egli << non è Dio di morti, ma di viventi: » Non est autem Deus

mortuorum sed viventium. Così tutti e tre gli Evangelisti con lievissime varietà nella disposizione delle parole; ma S. Luca ne riferisce quasi una confermazione aggiuntavi da Gesù in questa parola: « Chè tutti vivono a lui: » Omnes enim vivunt ei, e S. Marco ne ricorda questa conchiusione indirizzata ai Sadducei, che aveano mossa quella quistione: « Voi dunque di << gran lunga errate. » Considerando ora tutto il tratto recitato, in esso potrebbe parervi non molto accurato quel costrutto: De mortuis autem quod resurgant, non legistis etc.; ma esso si farà regolarissimo, se lo rendiate italiano così: « Per ciò che << concerne poi i morti che risorgeranno, o dovranno risorgere, << non leggeste forse?» con quel che segue. Neppure è da fare gran caso del leggersi in Marco, avere Dio parlato a Mosè super rubum, e da Luca secus rubum, essendo nel greco di entrambi il medesimo ini Ts Bátov: sono diverse forme da esprimere ciò, che dall' ebreo dell' Esodo si dice D (milthoch hassene), voltato forse troppo concisamente dai Settanta in éx Toυ Bátov, ma con ogni pienezza e proprietà dalla Vulgata per de medio rubi. La sustanza è, che Dio parlò a Mosè di mezzo al roveto.

Ma più che alle parole vuolsi qui por mente all' argomento con esse voluto stringere a provare, che le anime dei trapassati sono superstiti alla dissoluzione del corpo: il che dovendo avvenire per la natura dell' anima stessa, il dimostrarlo di una o di alcune, era il medesimo che averlo dimostrato di tutte. Del quale argomento tutto il valore dimostrativo consiste in questo, che essendosi Iddio chiamato in presente (ego sum, non fui od eram) Dio di quei tre Patriarchi, i quali da più secoli erano trapassati quando siffatte parole erano da Dio dette a Mosè, quell' affermazione non sarebbe stata vera, se di loro non fosse restato nulla; nè altro ne potea rimanere, che l'anima. Così se altri dicesse: Io sono il padre di Pietro, con ciò solo supporrebbe e farebbe intendere, che Pietro è vivo; e benchè nei comuni parlari forse si ammetterebbe quella proposizione, anche quando Pietro fosse morto; ciò tuttavia si direbbe solo in senso figurato per significare fui padre di Pietro, se pure la verità di quella proposizione non si attenga appunto alla credenza universale, che Pietro anche morto non finì tutto, ma restonne superstite il meglio: che fu in sustanza l'argomento

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